Lirica
VEC MAKROPULOS - IL CASO MAKROPULOS

L'ULTIMO APPLAUSO

L'ULTIMO APPLAUSO

Il caso Makropulos non era mai stato dato alla Fenice e la lacuna viene colmata con l'allestimento dell'Opéra national du Rhin di Strasburgo, dove Robert Carsen sta allestendo tutte le opere di Janáček in un progetto pluriennale. Il regista crea spesso una dimensione dello spazio originalissima e sorprendente e ha sempre intuizioni folgoranti per la drammaturgia senza stravolgere il libretto, qui particolarmente assecondato con il fondamentale apporto tecnico di Radu Boruzescu (scene), Miruna Boruzescu (costumi) e Peter Van  Praet (luci).

Durante l'ouverture viene presentato l'antefatto: una ragazza in abito rinascimentale beve da un calice e si sente male, poi una carrellata dei principali ruoli della lirica attraverso tre secoli, il tempo della vita della protagonista, dal barocco al Settecento al Novecento, da Tosca col pugnale a Manon con la parrucca, da Violetta col fazzoletto alla Marescialla con la maschera. La lirica, intesa come rappresentazione teatrale, è il motivo conduttore e il gioco del teatro nel teatro offre prospettive sceniche particolari. Infatti il trasformismo avviene sul palcoscenico con veloci cambi di abiti e parrucche e, ogni volta, la donna si avvia verso fondo scena dove un sipario si apre su una ribalta inondata di luci opposta alla sala della Fenice.

Il primo atto è ambientato nello studio dell'avvocato, dove ci sono librerie sfalsate addossate alle quinte di sinistra a cui si affaccendano gli impiegati; sullo sfondo il camerino di Emilia, la cui toletta diventa la scrivania di Kolenaty: Emilia è il vero motore degli eventi, gli altri pallide, ombrose, grigie figure che le si affannano intorno invano.

Efficacissima la congiunzione senza intervallo tra primo e secondo atto, che impone un ribaltamento del punto di osservazione: quello che vedevamo da dietro ora lo osserviamo da davanti. Nel preludio la platea si suppone essere opposta a quella reale della Fenice: quando la protagonista entra in scena (durante la carrellata iniziale con abilità trasformistica) si avvia, dandoci le spalle, verso un sipario sul fondo che noi vediamo dall'interno. Invece nell'inizio del secondo atto il sipario della Fenice è chiuso e, dalle barcacce, giovani spettatori lanciano mazzi di fiori per Emilia al termine di una recita. Poi escono, la sala (reale) si suppone essere vuota, il sipario si apre svelando la scenografia di Turandot (che debuttò nello stesso anno del Caso Makropulos, il 1926) con il tempio del Cielo dal tetto conico di maioliche smaltate blu, dragoni arrotolati su colonne cilindriche rosse e un trono supra una piattaforma. Uno spazio che via via si spoglia degli elementi scenografici lasciando solo il muro di mattoni. Anche la protagonista si spoglia del monumentale abito della principessa cinese, restando in sottoveste e trasformandosi in Lulù, due ruoli che si legano a Emilia per l'impossibilità di amare. La solitudine e la disperazione di Emilia sono amplificate da quel teatro vuoto e buio ricostruito sul palco e dal collegamento con Turandot e Lulù.
Si poteva evitare l'intervallo tra secondo e terzo atto: la rappresentazione ne avrebbe guadagnato in compattezza esecutiva e in efficacia drammaturgica. Infatti il terzo atto ha luogo nel camerino di Emilia dopo un amplesso con Prus, mentre il secondo si chiude con loro avvinghiati in piedi sul palcoscenico.

Il finale è inatteso e sorprendente. Emilia, per raccontare la sua storia, indossa lo stesso abito rinascimentale dell'inizio tornando a essere Elina Makropulos, l'unica donna che sia davvero stata in oltre tre secoli di vita sotto gli obbligati trasformismi (che il prologo rende in modo mirabile, giova ripeterlo). Nessuna parrucca sulla calvizie, finito il tempo del mascheramento. Tornata in possesso della formula dell'eterna giovinezza, la offre a Krista, poi si rivolge al pubblico cercando di coinvolgerlo mentre le luci in platea si accendono. Nessuna risposta ma una sola certezza: la vita oramai è impossibile. Elina strappa il foglio con la formula e si avvia verso fondo scena, verso il sipario, per un ultimo applauso. Con moto contemporaneo, ma inverso, il sipario sul fondo si apre e quello della Fenice si chiude.

Gabriele Ferro debutta alla conduzione del Caso Makropulos senza cogliere appieno la frammentarietà della partitura, basata non su appoggi ritmici ma ben legata agli apporti vocali, privilegiando invece impasti lirici e rotondità.
L'angoscia esistenziale che domina nell'animo della protagonista è ben resa da Ángeles Blancas Guilìn che con sottigliezza e intelligenza riesce a presentare le diverse componenti della protagonista, dalla distaccata e stanca Emilia alla solitudine di Elina, dalla sensuale Eugenia alla materna Ellian, sempre con precisione vocale e nessuna incertezza.
Adeguato il resto del cast: Martin Bàrta (Prus), Enrico Casari (Janek), Ladislav Elgr (Gregor), Andreas Jaggi (Hauk), Enric Martìnez-Castignani (avvocato), Leonardo Cortellazzi (Vìtek), Judita Nagyovà (Krista), Leona Peleskovà (una cameriera e una donna delle pulizie) e William Corrò (un macchinista) impegnato col faro dalla barcaccia di secondo ordine. Coro ben preparato da Claudio Marino Moretti.

Pubblico numeroso, consensi unanimi, applausi convinti.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)