Macerata, teatro Lauro Rossi
CHI E’ QUELL’UOMO CHE SEMPRE CI CAMMINA ACCANTO?
Chi è quel terzo che sempre ci cammina accanto? È questo l’inquietante interrogativo che domina “Vecchi tempi” di Harold Pinter. Chi è Anne, l’amica dei bei tempi universitari di Kate, attesa da questa e da suo marito Deelay in una bella casa sul mare (ma anche in mezzo alla campagna)? Che cosa vuole scoprire Deelay attraverso Anne della vita segreta di Kate? Che cosa vuole scoprire Deelay attraverso Anne della propria vita? L’uomo non è forse il risultato delle esperienze del passato e di quello che di questo passato ricorda (o inventa)? Quanto contano le scelte del presente e le speranze per il futuro? È vero che a volte ci si ricorda di cose che non sono mai accadute, ma proprio perché le ricordiamo, convinti che siano accadute, sono accadute davvero? È vero che non si ricorda niente perché niente si dimentica (Proust)?
Rumore di mare, all’inizio. Mare che si vede dalla finestra sullo sfondo. Mare proiettato in video sulle pareti. Grida di uccelli, dopo. Immagini di stormi proiettate sulle pareti. Una voce stentorea: “che cosa vuole dire la parola AMICA dopo tutto questo tempo”? L’amica è in ombra, di spalle, presente già dall’inizio nella vita della coppia, per entrare in scena le basta girarsi e dire una battuta. Non solo l’amica è sempre presente, ma, visivamente, è anche il punto di congiunzione, il punto di fusione dei due coniugi: Kate è vestita di bianco, Deelay di nero, Anne di bianco e nero (pantaloni e maglia neri, giacca bianca), diversa da tutti e due, ma, al tempo stesso, a tutti e due complementare.
La commedia, costruita sui tranelli del passato, sui rimandi proustiani della memoria e su un’ossessione della vita trascorsa, si mantiene in bilico tra il surreale e l’assurdo. Il testo può anche essere significativo in quello che vuole mostrare o dimostrare, ma ad ascoltarlo a teatro suona datato, indecifrabile, sconnesso. Le atmosfere sospese, il non detto, i dialoghi incompiuti, le pause, il silenzio, tutto sembra ormai essere sorpassato, non nuovo ed emozionante come fu al suo apparire nel 1970. La vera incomunicabilità appare quella del testo a teatro, che lascia gli spettatori con un senso di scarsa comprensione, di incompiuto, di certo effetti non voluti dall’autore. Alla fine tutto si risolve in riflessi, rimandi, apparizioni, vibrazioni, immagini sfocate, evocazioni, reticenze. Solo questo. E non basta.
Il regista Roberto Andò, specialista pinteriano, cerca di rendere gli echi del testo con una rigorosa scenografia: il divano bianco che ruota su se stesso in scena (mostrando i protagonisti da ogni angolazione), i ricordi proiettati sulle pareti, vero o falsi non è dato sapere, i rumori, dall’iniziale inquietante mare ad altri. Umberto Orsini è bravo nel rendere con lucida freddezza un uomo non giovane che accetta di fare i conti con se stesso senza paura. Accanto a lui l’indecifrabile e ingessata Kate di Valentina Sperlì e la Anne di Elena Ghiaurov, eccessivamente solare (forse) perché vive col marito in Sicilia. Molti, a cui era sfuggito all’ingresso il cartello che indicava la breve durata dello spettacolo, alla fine hanno pensato che era l’intervallo.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 16 febbraio 2005.
Visto il
al
Alessandro Bonci
di Cesena
(FC)