Malatosti mette in scena una propria traduzione in lingua moderna, ma fedele all'originale, del poema lungo che Skakespeare diede alle stampe nel 1593, quel Venere e Adone che ebbe all'epoca un grande successo (nel 1602 era già in decima ristampa) soprattutto tra i giovanotti1.
Shakespeare si cimenta con un testo tramite il quale affermarsi non come drammaturgo, ma come poeta colto, affrontando un argomento mitologico cui i suoi colleghi laureati rivendicavano accesso esclusivo2.
Il tema proviene dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, che racconta di come Venere, colpita di striscio e per errore da una freccia di Cupido, innamorata perdutamente di Adone, cerca di impedirgli di andare a caccia, perchè sa che il ragazzo perderà la vita. Il mito è dunque più incentrato sulla paura della perdita che sul desiderio carnale. Shakespeare ne sposta il singificato incentrandolo sul rifiuto di Adone alle profferte amorose di Venere (Erwin Panofsky indicò nel dipinto di Tiziano Vecellio una possibile fonte ispiratrice) rifiuto che porta Venere, sempre più eccitata dai dinieghi del timido, bellissimo Adone, a costringerlo a fare sesso con lei.
Un poema sull'amor carnale dunque, che conduce inevitabilmente alla morte dell'amato bene (Adone si sottrae a Venere andando a caccia).
Questa riscrittura del mito costituisce una sorta di autoemancipazione di Venere il cui desiderio consumato è un riconoscimento della possibilità per una donna di essere soggetto desiderante.
Malosti appronta una drammaturgia nella quale è al contempo come voce narrante del poema, affabulatore e declamatore, e anche come attore recitante, che interpreta tutti i personaggi. Si presenta in scena assieme al giovane ballerino Daniele Trastu, sensuale e dal corpo desiderabile, che tiene sempre presso di sè. Entrambi stazionano su una strettissima pedana, montata su un carrello che scorre su un binario, che percorre la scena longitudinalmente, avvicinandosi e allontanandosi dalla platea. Mentre Trastu esegue delle coreografie da fermo a illustrare e commentare il racconto scespiriano Malosti-Venere concupsice il giovane, ne sfiora il corpo, lo prende in braccio sostenedolo con una mano tra i glutei e l'inguine, lo strapazza come una bambola di pezza (proprio come Shakesperare fa fare a Venere con Adone) gli toglie la camicia, fino a sfilargli pantaloni e sospensorio con un gesto solo, offrendo alla vista del pubblico i glutei geometricamente perfetti e glabri del giovane, quel tanto che basta per accenderne l'immaginazione, facendo piombare subito dopo la scena nel buio mentre Shakesperare-Malosti (amplificato dal microfono) descrive il loro amplesso selvaggio e concupisciente.
Questo rapporto intimo tra affabulatrore e danzatore è l'elemento più indovinato della messisncena, che costituisce un vero e proprio correlativo oggettivo della concupigia che trasuda dal testo.
Una messinscena che affida alle musiche (divise per genere a seconda dei personaggi che parlano e vengono descritti nel poema) e alle luci la scansione dinamica del racconto con continue pause, distinguo, a parte. Le luci, sagomate a illuminare parti precise della scena, oppure nascoste dai teli bianchi e neri che coprono i lati del palco dai quali traspaiono come oniriche presenze, rimandano a innumerevoli citazioni visive (una testa di cavallo?) in contrappunto con la partitura sonora che va al di là della musica stessa (un telefono che squilla).
La Venere di Malosti (che si presenta in scena vestito con dei pantaloni di pelle, una camicia sgargiante aperta sul petto, eye-liner sugli occhi, un cenno di rossetto e smalto alle unghie) acquista oltre quella shakespeariana di donna che si comporta sessualmente come un uomo, un'altra valenza quella di un uomo che strizza l'occhio alla donna che va a interpretare lasciandole intendere di capirla perfettamente perchè Adone piace anche a lui. Sull'emancipazione della donna che può mostrare lo stesso desiderio sessuale degli uomini Malosti innesta un'altra emancipazione quella del desiderio stesso non più costretto nei ruoli sessuati ma che ormai può dichiararsi puro desiderio dell'uomo per l'uomo (della donna per l'uomo) dove l'uomo celebra il proprio infantile ed erotico narcisismo.
E se per molti recensori basta qualche inflessione napulitana per scomodare Ruccello e i suoi femminielli (sic!) mentre altri scomodano addirittura i pasoliniani ragazzi di vita (confondendo ancora e sempre omosessualità col travestitismo, omoerotismo con perversione e degradazione di periferia) la vera essenza drammaturgica di questo Venere e Adone ce la spiega Malosti stesso nelle note di regia:
Il gioco delle identità entra così in un labirinto di specchi: in scena, la dea/macchina/attore en travesti, diventa anche Narratore e voce di Adone, divorando tutte le identità narranti.
Un desiderio che divora (Venere ammette che, avesse avuto lei i denti aguzzi del cinghiale ne avrebbe già dilacerato le carni) una libido che induce a mangiare l'altro in una pulsione che è smepre di morte (come di ogni orgasmo si dice sia una piccola morte).
Malosti allestisce intorno al poema del Bardo uno spettacolo barocco e pop, nell'impianto, cerebrale ed eccessivo nella sua indole affabulatoria, algido e impassibile, nella precisione di un meccanismo scenico dove tutto è calcolato al millimetro, privo di un vero desiderio, di una vera passione, sentimenti imbalsamati da un apparato drammaturgico autocelebrativo: più che Malosti che interpreta Shakespeare sembra di vedere Shakespeare interpretare Malosti.
E in questa autocelebrazione, non sappiamo quanto intenzionalmente, Malosti finisce per scalzare Venere dal poema, e prenderne direttamente il posto, non come personaggio effeminato, invertito, omosessuale ma come personaggio maschile che ama un altro uomo.
E perchè la celebrazione del desiderio omoerotico debba essere fatta a spese di quello della donna è un mistero che lo spettacolo lascia insoluto.
Alla fine della messinscena il pubblico sommerge i due interpreti di un fiume ininterrotto di applausi e urla d'entusiasmo e, come al solito, chi siamo noi per contraddire il pubblico?
1) Stephen Greenblatt Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico Einaudi, Torino 2005 p. 265
2) Ibidem, p. 260