Superficiale, azzimato, disincantato, saggio, affettuoso, schietto, feroce, geniale, sensibile, fragile. Tutte le sfaccettature di una personalità sfuggente ed impossibile da comprendere nel profondo si incontrano nel Truman Capote di Massimo Sgorbani. Il ritratto di un uomo solo, perseguitato dai suoi demoni e dai suoi numi tutelari, attratto e disgustato da una società che lo celebra e lo rifiuta al tempo stesso.
Gianluca Ferrato dà corpo e voce allo scrittore americano in un monologo di quasi un’ora e mezza, nel quale porta alla superficie tutte le esperienze che hanno contribuito a creare il personaggio Capote: la sua omosessualità, mai nascosta ma vissuta appieno in una società intollerante, il suo rapporto difficile con la madre, il successo artistico e la fama, fino alla sua identificazione con creature fragili e problematiche come lui, che incontra anche – forse prediligendoli – tra i reietti.
Ferrato è di una rara delicatezza nell'interpretare un personaggio che per la sua natura eccessiva potrebbe cadere nella caricatura. Non vi è nulla di ridicolo nel suo Capote, bensì una connessione empatica, uno sguardo quasi affettuoso verso un uomo che ha il coraggio di indagare sé stesso ed il suo rapporto con il mondo. Straordinariamente commovente la scena del “colloquio” con Perry Smith, l'assassino che lo scrittore intervistò per il suo best-seller “A sangue freddo”, nella quale per la prima volta si intravede la profondità dell'uomo Capote, oltre l'omosessuale, il dandy, il viveur.
Seppure agile, la pièce rallenta il ritmo nella seconda parte, indugiando in maniera forse eccessiva sul triangolo composto dai due fratelli Kennedy e dalla Monroe e sulle rispettive dipartite. Lo status iconico dei tre, sui quali si è ormai scritto e detto talmente tanto da renderli quasi personaggi da rivista patinata, offusca l'intensa riflessione sulla morte che li accompagna.
L'ottima regia di Emanuele Gamba accompagna ogni scena giocando con luci e suoni, per impostare e sottolineare il tono di ogni momento. Lo spettacolo si muove in un non-luogo che racchiude e racconta i momenti salienti della esistenza ed essenza del personaggio. Giocando con lo spazio e gli oggetti di scena, Ferrato-Capote si sposta dalla natia Louisiana alla New York degli anni '60, ammantata di un'aura di leggenda.
Senza cadere nell'agiografia, il testo propone una lettura di un personaggio scomodo, irriverente e disperatamente geniale, un'occasione da non perdere per riscoprire un autore troppo spesso svilito dall'applicazione di comode etichette.