Prosa
VITA DI GALILEO

SVENTURATA LA TERRA CHE HA BI…

SVENTURATA LA TERRA CHE HA BI…
SVENTURATA LA TERRA CHE HA BISOGNO DI EROI Nell'epoca del capitalismo industriale il teatro deve farsi carico dei compiti propri della scienza sociale: questo è alla base del “teatro epico” di Brecht, di cui “Vita di Galilei” è una delle maggiori opere. Nel presentare la vita e la figura dello scienziato, Brecht si interroga sulla libertà intellettuale, sul rapporto tra scienza e fede, sui limiti dell'una e dell'altra, lasciando nel lettore e nello spettatore un senso di indefinito, di enigmatico, a causa della loro irrisolta contraddittorietà. Ma bisogna sempre porsi domande, affannarsi a cercare risposte. Poi, avendole trovate, metterle in dubbio e cercare ancora, studiare sempre, analizzare, criticare (nel senso etimologico greco del termine): questo è, secondo me, il senso della vita. Senza requie, senza tregua. Galileo, docente di matematica a Padova, cerca la prove del nuovo sistema cosmico di Copernico; servendosi del suo telescopio scopre fenomeni cosmici che lo confermano. Ma i dottori della corte medicea, per la quale ha lasciato la Repubblica di Venezia, accolgono con incredulità le sue scoperte, confermate invece dall'istituto pontificio per le ricerche scientifiche. L'Inquisizione però pone all'indice le teorie copernicane. Dopo otto lunghi anni sale al soglio pontificio Urbano VIII uno scienziato, e Galileo riprende le ricerche. Ma l'Inquisizione lo costringe ad abiurare le sue idee sul sistema solare e lo imprigiona in una villa in Toscana dove resterà, quasi cieco, fino alla morte. Il mondo di “questo” Galileo è vuoto, essenziale: nella bella scena di Pier Paolo Bisleri la parete di fondo, su cui si apre un enorme portone, è il cielo, con la costellazioni e le galassie, un mondo nebuloso ed indistinto come è anche il mondo reale in cui si trova a vivere e studiare lo scienziato. Dai ricchi costumi di Elena Mannini compendiamo che l'epoca è l'inizio del Seicento, in adesione all'effetto di straniamento che l'autore perseguiva. Però alcuni sottili dettagli spostano (simbolicamente) l'azione, la avvicinano, rendendola sempiterna e imponendo le grandi motivazioni per cui il testo è stato scritto (rapporti scienza-potere e scienza-religione): il protagonista veste le giacche abbottonate e senza collo che indossava Brecht; l'abiura viene diffusa da altoparlanti; l'artista girovago va di piazza in piazza con una motoape accompagnato da due donne in abiti anni Trenta. Infatti Brecht, narrando la vita di Galileo, voleva dire cose importanti agli uomini del suo tempo, soprattutto voleva analizzare il rapporto tra scienza e fede ed il ruolo dello scienziato nella società. Dando così voce all'inquietudine, al tormento, ai dubbi e all'ansia dell'uomo del Novecento: come possono convivere scienza e fede? E scienza e potere politico? La regia di Antonio Calenda è efficace e lucida nel presentare con chiarezza la vicenda e, al tempo stesso, nell'evidenziare quelle domande esistenziali che sono nel testo e che, irrisolte, continuano a ritornare nella mente dello spettatore, inducendolo ad un inesausto lavoro di pensiero e di studio su quelli che sono i propri punti di partenza nell'affrontare quelle rilevanti questioni, etiche e morali. Il senso del testo, nella scorrevole e misurata traduzione di Emiliano Castellani, è più che mai attuale ed ha una eco molto forte nella vita di tutti i giorni, per cui la vicenda dello scienziato suona come emblematica per l'epoca contemporanea. Intelligente e coraggioso, ma anche vigliacco e ambiguo, Galileo è una forte metafora del comportamento dell'uomo novecentesco (Brecht era rimasto sconvolto dagli studi per la bomba atomica e dal suo utilizzo in Giappone, tanto che mise mano tre volte al suo testo, nel 1938 mentre appoggiava Oppenheimer, nel 1946 dopo Hiroshima e nel 1955 dopo il rientro in Germania est). La forza espressiva è chiarificata dall'avere scelto come “voce narrante” quella di Andrea Sarti, giovane discepolo che ci racconta il tempo e il luogo dell'azione. In un impiantito ovale di grandi assi di legno che sembra fluttuare nel vuoto, sapientemente illuminato in modo espressionista dal bravo Gigi Saccomandi, Franco Branciaroli non si risparmia e passa in rassegna con attenzione e minuzia l'amplissima gamma di sentimenti che vive il protagonista. La certezza di non sapere, la sete di sapere, il non tempo per studiare e così l'impossibilità pratica di verificare le ipotesi, il contrasto con la chiesa (“non ci è dato di conoscere la verità, però ci è consentito di cercarla” - questa la posizione ufficiale della chiesa nel testo; “Se in cielo ci sono le stelle, dov'è Dio? Lassù no. E allora come potrebbe essere quaggiù? Ma allora dov'è Dio?” - questo il pensiero del giovane Galileo - “Dio è in noi e in nessun luogo” - la risposta di Giordano Bruno), la mercificazione della scienza o forse piuttosto dei suoi risultati, gli scienziati asserviti al potere e su tutto la libertà intellettuale (“la verità è figlia del tempo, non dell'Autorità”) e la supremazia della scienza (“la scienza ha il solo scopo di alleviare la fatica dell'umanità; gli uomini di scienza devono imporsi sui potenti per essere forti e creare vantaggi per l'uomo”). Branciaroli, accompagnato da bravi comprimari, è un magnifico Galileo, prima combattivo e forte, quasi violento ed irruento, anche imbroglione ed approfittatore, poi rassegnato, vinto, sconfitto, quasi un demente, se non fosse per quel sussulto che rivela la caparbietà di non rassegnarsi ad abbandonare i suoi studi, la tenacia nel trascrivere di nascosto i propri testi, altrimenti destinati alla distruzione, nascondendoli nel mappamondo e poi consegnandoli ad Andrea che si rifugia nella già libera Olanda, dove li pubblicherà. Ma a Galileo spetta la frase chiave, “Beato il mondo che non ha bisogno di eroi, beato il mondo che ha bisogno di uomini”. Visto a Jesi, teatro Pergolesi, il 17 maggio 2007
Visto il
al Toselli di Cuneo (CN)