Macerata, teatro Lauro Rossi
L’UOMO CHE PARLA
Vita Morte e Miracoli è la storia di Mariona, una madre che in mezzo alla guerra si acchiappa i figli suoi, Rocco, Biagio e Santino, e se li porta a vivere in un camposanto. Mariona frega un maiale e parla coi santi, muore e chiacchiera coi morti, racconta il diluvio universale o la ricetta di quell’erba nera che si mangia solo in quei giorni, ma sempre continua a inseguire i miracoli fino all’ultimo sforzo per ricostruire non solo il ponte di San Giacomo, ma anche il ponte che fa incontrare i vivi e i morti per l’ultima volta.
Vita Morte e Miracoli è una lettura magica della realtà, un rito orale sacro e laico. È un racconto grottesco sui vivi e sui morti, una parabola laica e surreale, che diverte e assurge a vicenda esemplare di un mondo legato ai rituali. Non c’è critica o denuncia, solo un racconto al tempo stesso sacro e profano, sempre lucido, sempre legato al sogno, alle immagini della cultura figurativa cattolica che si mischiano ad altre suggestioni, in un percorso vitale e sanguigno. La vita riassorbe in sé conflitti e contrari, distribuisce tempi e spazi tanto ai vivi quanto ai morti, avvicinando presente e passato in una memoria continua, un viaggio attorno a un cerchio che viene percorso all’infinito da genti diverse, una cultura che alimenta ogni volta la propria memoria di segni nuovi e profondi. I materiali utilizzati da Ascanio provengono dal rito (e non solo quello cattolico), dal racconto di sogni contadini, dalla scansione di un tempo rituale in rapporto agli eventi storici che riguardano la seconda guerra mondiale, vista come argomento di epica contemporanea.
Ascanio guarda il mondo e l’aldilà con sguardo innocente, a volte divertito, in fuga da una dura realtà mai però completamente dimenticata. Ascanio, nel suo inconfondibile accento romano, propone le forme della lingua popolare, con ripetizioni, sconnessioni logiche, mescolando con il piacere dell’esagerazione. La musicalità della narrazione nasce dalla parlata vagamente dialettale, dalla scansione delle frasi, dalle ripetizioni che a volte sembrano quasi ritornelli interpretati a diverse velocità, come “…e tutto il mondo è paro”. Un romanesco, insomma, argutamente colorito ed ingenuamente popolaresco, una lingua che rimanda ad altri tempi, quasi un residuo dell’infanzia, usata secondo moduli circolari e volutamente insistentemente ripetitivi.
Un uomo che racconta, fermo in mezzo a un circolo di candele, vicino a un ramo nodoso da cui pende una lampadina, unico poetico arredo della scena. Un uomo che quando è lui che racconta tutto il resto scompare. “… e tutto er monno è paro”.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 3 febbraio 2005.
Visto il
al
Auditorium Parco della Musica - Sala Santa Cecilia
di Roma
(RM)