Lirica
VIVA LA MAMMA

Una, nessuna e centomila

Una, nessuna e centomila

Lasciatemelo dire: il titolo “Viva la Mamma” affibbiato a “Le convenienze e inconvenienze teatrali” di Donizetti non è che mi vada molto; ma c'è di peggio, visto che c'è chi ha addirittura escogitato un "The Prima Donna's Mothers is a Drag": cioè, all'incirca, "La mamma della primadonna è una rompiscatole". Seguendo un tal criterio, si finirebbe per ribattezzare “Rigoletto” come “Il gobbo maledetto”, oppure come “Storie di poveri amanti” la pucciniana “Bohéme”…meglio non pensarci. Quel che conta, e che non deve sorprendere, è il fatto che ormai questo lavoro comico si sia ritagliato un suo posto nel repertorio corrente, accanto a lavori di maggior importanza quali “L' elisir d'amore“ e “Don Pasquale”. Sul tema particolare del teatro nel teatro Donizetti  si era cimentato nel maggio del 1827 con il 'melodramma romantico' "Otto mesi in due ore"; di lì a poco vi ritornava con questa farsa dall'intreccio un po' estemporaneo, rappresentata nel novembre successivo, sulle assi del napoletano Teatro Nuovo, per una serata a beneficio dell'Autore. Vista la felice accoglienza la partitura - certamente uno dei meglio riusciti tentativi di satira sul mondo un po' pazzo del teatro -  venne poi ripresa da Donizetti quattro anni dopo a Milano e di nuovo a Napoli, integrata da una seconda parte sì da assumere la forma attuale. Una forma che peraltro non può dirsi in assoluto definitiva, perché nelle fonti tramandateci numerosi sono gli aggiustamenti al libretto (in origine anonimo, ma ormai definitivamente assegnato a Domenico Gilardoni), e le piccole o grandi modifiche apportate alla musica. Al punto che, come ha osservato Roger Parker, curatore della recente edizione critica Ricordi, quest'opera «sembra abbia avuto tante versioni...quante sono le riprese che l'hanno riattualizzata in una rappresentazione».
"Le convenienze e inconvenienze teatrali” parrebbe dunque destinata per sua natura ad essere di continuo modificata e variata, secondo la sensibilità del momento e le esigenze contestuali; quasi una 'opera aperta', caratterizzata da una disposizione interna elastica e plasmabile (senza esagerare, si spera!), non fosse altro per l'impostazione di base, con manifeste citazioni altrui e la dichiarata disponibilità di accogliere al suo interno, nella seconda parte, alcune “arie da baule”: secondo il capriccio degli interpreti allora, secondo i desiderata dei vari registi oggi. Così è accaduto per questa versione catanese, nella quale Beppe De Tomasi e Dino Gentili hanno calato alcuni nuovi dialoghi, che talora seguono, talora deviavano dalla traccia preesistente, e sono intervenuti pure su alcuni versi musicati per adattarli al loro obiettivo, ovviamente quello di intrattenere e divertire il pubblico. Anche per questo hanno affidato alla figura di Mamma Agata, in sostituzione dell'originale vernacolo partenopeo usato in origine dal basso Gennaro Luzio, colorite e sapide battute in dialetto catanese che hanno fatto immediata presa sul pubblico del Massimo Bellini. Se ne è fatto porgitore il più che bravo Simone Alaimo, irresistibile 'maman' in vesti femminili (e pure in parrucca bionda, quale inattendibile e corpulenta Afrodite), pronto a prendere pieno possesso del palcoscenico sin dal suo travolgente  ingresso in teatro da fondo sala, con due poveri inservienti finiti a gambe all'aria per aver osato fermare la corpulenta e pestifera megera.
Trovate farsesche a parte, nel complesso tutta la regia di De Tomasi viaggiava spedita, pervasa da un bonario humour e di felici battute, facendo aleggiare una gradevole aria di freschezza sullo spettacolo; e nella seconda parte, naturalmente non mancavano le famose "arie da baule", come un'esilarante "Non più mesta" affidata a Luigia - «ho giusto qua un vocal pezzo che mi ha dato un giovane studente nato a Pesaro», le dice Biscroma consegnando lo spartito - da lei scandita spiritosamente, in mancanza del testo definitivo, su d'una successione di semplici numeri.
Complice consenziente dello spettacolo - a lui toccavano anche salaci scambi di battute con il palcoscenico - era indubbiamente il direttore Will Homburg, che ha impresso una vivacità irresistibile all'orchestra e dialogato perfettamente con i cantanti, serviti sempre a puntino: concertazione briosa, satura di ritmo, con notevole varietà di fraseggio e cospicua eleganza. Un accompagnamento insomma inappuntabile, portatore di colori e belle sonorità - più donizettiano di così non poteva essere, direi - nel quale svolgevano un importante ruolo gli efficienti strumentisti del Massimo Bellini.
Nel ruolo di Daria stava Stefania Bonfadelli, molto brava e spigliata come sempre: lo dimostra subito con le fiorettature di "Le smanie io sento in petto", meritandosi appieno gli applausi dei presenti anche per la franca simpatia nel tratteggiare il suo personaggio di prima donna pretenziosa e un po' sgangherata. Efficientissimi dal punto di vista vocale - e assai ben affiatati tra loro - anche tutti gli altri interpreti: Graziella Alessi (Daria), Caterina D'Angelo (Dorotea), Angelo Villari (un divertentissimo Guglielmo, traballante tenore 'tetezco'), Francesco Vultaggio (un Procolo bravissimo nella tirata di "Se credete che mia moglie"), Giuseppe Esposito (eccellente Biscroma), Armando Ariotini (l'impresario), Alberto Tomarchio (Prospero) e Tino Rametta (l'ispettore).
La scenografia - priva di firma - raffigurava un tradizionale retro palcoscenico, con il caos d'oggetti che normalmente ingombra tali luoghi. I personaggi erano abbigliati con costumi d'epoca, anch'essi non firmati. Sebbene non particolarmente impegnato, il coro diretto da Tiziana Carlini si è disimpegnato a dovere. Spettacolo dunque riuscitissimo in ogni suo ingrediente, molto divertente e quindi molto apprezzato ed assai applaudito dal pubblico catanese. Oltre naturalmente da chi scrive.

Visto il
al Massimo Bellini di Catania (CT)