Danza
VOLEVO UN GATTO NERO

Il teatro Furio Camillo ripre…

Il teatro Furio Camillo ripre…
Il teatro Furio Camillo riprende con Grafie 2008 una rassegna di spettacoli di danza, teatro danza e teatro incentrata sulla specificità del corpo dell'attore, fulcro di ogni spettacolo "dal vivo". Una "riscoperta del corpo" che vede nella danza uno dei versanti più aperti alle contaminazioni, al mettersi in discussione e a incontrare altre discipline. Il primo spettacolo della rassegna è Volevo un gatto nero di Loredana Parrella coreografa (ma la definizione le sta stretta)-regista, con un trascorso professionale internazionale (Parigi e Bruxelles) da qualche anno alla guida della compagnia >Cie Twain assieme al theater designer belga Roel Van Berckelaer. Lo spettacolo (già andato in scena lo scorso maggio al teatro Palladium di Roma) si incentra come indica il titolo (e la bella locandina) sull'infanzia al femminile, sulla performatività ludica del corpo femminile in fieri, quello delle duebambine in scena e quello delle performer che le interpretano Vittoria Maniglio e Anna Basti. Tra giochi verbali (cantilene, onomatopee) e movimenti copiati, replicati, coordinati, in contrasto o specularmente, in un crescendo che emoziona e non stanca mai le due performer ripercorrono le varie tappe del giocare infantile tra bambole e scoperta continua delle possibilità del proprio corpo. I vari momenti coreografici sono sviluppati per tappe che hanno sviluppi più dimostrativi che narrativi, lasciando allo spettatore l'incombenza, se vuole, di contestualizzare i movimenti e i gesti che vengono presentati sulla scena oppure di goderne la performatività per se stessa. Di quadro in quadro le due bambine-danzatrici sono contrappuntate (si dice?) da una terza performer (Valentina Calandirello) che, seduta nel suo quadrato di terra, vestita con uno splendido abito bianco ricoperto di tulle, si agita, si sporca, si bagna (prendendo vera acqua da due secchi...) si percuote, si agita e dimena. La coreografia chiede infatti alle sue interpreti un impegno totale e per quanto si impari a cadere senza farsi male il corpo percosso della ragazza di bianco vestita, che si agita come un pesce fuor d'acqua inquieta, mette a disagio, impressiona. Insomma il gioco diviene un viatico per la celebrazione del corpo (femminile) delle sue interpreti mediate da un richiamo all'infanzia, mai irrisa ma casomai celebrata. Volevo un gatto nero... segue una ispirazione squisitamente femminile lontana dalla logica verticale adulto-bambino affine piuttosto al mondo ludico anarcoide nel quale vivono i bambini, almeno quando giocano. Finché sopraggiunge la scoperta del corpo sessuato: sdraiate una accanto all'altra le due bambine-performer si toccano, prima il fianco, poi i seni infine il ventre, ritraendosi ogni volta immediatamente. Poi l'una lega polso e caviglia dell'altra con una fascia approntando uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo quando entrambe sono costrette a danzare così legate trasformando la danza in una pura performance del corpo. Una quarta perfomer rimane per la prima parte dello spettacolo dentro un baule, bambola di carne che cambia posizione tra un quadro e l'altro, prende vita nella parte finale della coreografia diventando maestro di spada. Purtroppo interviene nella parte più debole dello spettacolo non per la sua performance ma perché meno ispirata appare la sua parte coreografica (a partire dalle due spade che maneggia senza quell'eleganza posata da schermatrice né da danzatrice). Il suo ruolo è quello di provocare, infastidire, redarguire le due bambine-ballerine, ed anche la ragazza di bianco vestita, ma senza l'ausilio delle note sullo spettacolo si fa fatica a capirne il ruolo, dalle note così spiegato: Quando nel loro mondo entra il Cantastorie Maestro d’Armi, allo scopo di istruirle a diffidare di tutto ciò che è apparentemente una facile conquista, le piccole discepole ne rimangono inizialmente affascinate, disponibili a lasciarsi guidare attraverso la narrazione di una fiaba. Si arriva così all'happenig finale una proiezione video nella quale vediamo le due bambine ormai cresciute alle prese l'una col cibo (e l'attrice si ingozza davvero all'inverosimile...) e l'altra con la pratica del make-up e delle sigarette. Volevo un gatto nero... rimane uno spettacolo irrisolto nella sua vocazione a voler essere pura performatività delle sue interpreti (davvero notevoli date anche le alte pretese della coreografia imbastita da Loredana Parrella) non sa sciogliere il nodo della pura scelta dimostrativa (come vogliono le note di regia) che non sa suo malgrado rinunciare del tutto a una sotterranea esigenza narrativa con l'infausto risultato di rimanere debole in entrambi i versanti. Avrebbe infatti giovato alla coreografia una maggiore astrazione (come avviene nella prima parte) oppure, viceversa, un maggiore coraggio nell'individuare alcuni di crescita delle due bambini (quell'accenno di sessualità, il loro destino da adulte mostrato nelle istallazioni video). Loredanna Parrella non sa decidersi fino in fondo tra un discorso sul femminile (che rimane abbozzato e che avrebbe invece meritato un maggiore respiro) e la pura celebrazione del corpo femminile come avviene chiaramente nella prima parte dello spettacolo. Una maggiore ricerca di intenti gioverebbe a una coreografia interessante, priva di certe sovrastrutture ma proprio per questo più vulnerabile ai propri difetti (fatto salvo l'impegno davvero totale delle quattro perfomer) quelli di una danza di ricerca che predilige l'incompiuto, l'imperfetto, l'organicamente disordinato e poco determinato. Roma, teatro Furio Camillo 6-9 novembre
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al Furio Camillo di Roma (RM)