La sala era priva di allestimento, senza fondamenta, destinata a dissolversi con il suo contenuto nel buio da cui emergevano e venivano reinghiottite le figure. Fuori dall’ingresso, gli spettatori hanno abbandonato giacche, borse e ogni altro oggetto, come fossero in un camerino e in procinto di entrare in scena. Il pubblico è stato coprotagonista di quello che non sarebbe corretto definire spettacolo, ma piuttosto un’esperienza. «Siamo a teatro, quindi è tutto finto ed è tutto vero».
Divisi in piccoli cenacoli, gli spettatori/attori si sono seduti a terra, attorno a un simbolico focolare dove ha avuto inizio il racconto. A uno è stato chiesto il nome, a un altro la città di provenienza, a un altro ancora un ricordo: tasselli diversi hanno composto un'unica narrazione. Similmente i personaggi di Shakespeare, che «in fondo è solo un nome», sono naufragati sulla riva dello spazio scenico sospinti da marosi drammaturgici, seguendo un tempestoso ordine casuale, slegandosi e amalgamandosi a comporre formazioni pittoriche: Re Lear, Otello, Amleto, Bruto e il protagonista dell’opera ispiratrice, Prospero, in cui la tradizione identifica lo stesso Bardo di Stratford on Avon, ovvero il detentore della bacchetta magica dalla quale scaturisce il teatro. Proprio all’interno del concetto di teatro, sono stati guidati gli spettatori/attori. «Voi non avete la chiave, ma non serve, perché la porta è aperta». Il gruppo, scomposto nel seguire gli stimoli provenienti da diverse direzioni, ha formato un labirinto umano all’interno del quale si sono mossi gli interpreti del Teatro del Lemming per invitare a scoprire, assieme a quella shakespeariana, le varie identità di ciascuno. Un ritrovarsi possibile solo dopo essersi perduti, dopo aver abbandonato, fuori dalla porta, ogni nozione precedentemente codificata.
«La vita è un’ombra che cammina, è un attore che si agita per un’ora sulla scena e poi non è più nulla». I rimandi si sono affastellati nella rielaborazione letteraria e registica di Massimo Munaro. Al termine, le pagine shakespeariane hanno disciolto nell’acqua le parole scritte e, divenute cartapesta, sono state modellate sopra un corpo nudo, impietosamente imperfetto. Un bozzolo dal quale poter rinascere dopo il processo di metamorfosi, di catarsi.
La fisicità ha rivestito un ruolo importante nell’economia del collettivo esercizio di conoscenza, tra mani che si sono strette, abbracci, odore di corpi sudati, occhi guardatisi intensamente fino ad azzerare le distanze: esternazioni materiali, assecondate senza remore dal pubblico (condizione insolita il cui merito va ascritto alle modalità esecutive del Lemming), che hanno controbilanciato il protendersi del disegno registico verso l’immaterialità. Lo schema metateatrale si è ciclicamente associato e poi dissociato da Shakespeare, per approdare a un’identità estetica autonoma. Talune citazioni sono parse scontate per la loro notorietà: una normalità che, in questo contesto, è parsa anomala.
Quindi, le dicotomie hanno contraddistinto il lavoro, in un altalenare di opposti stimolante, frutto della ricerca intrapresa fin dalle origini dall’ensemble teatrale che, pur ripetendo una formula collaudata, riesce a risultare innovativo, ancora in grado di esprimere contenuti originali. Finita la performance, nell’atrio/camerino il regista ha distribuito note esplicative della serata che, nel loro giungere a posteriori, hanno uniformato le elaborazioni personali di ciascun partecipante e ancora una volta (una di troppo) hanno ricondotto su una traccia predeterminata l’esaltazione della molteplicità d’esperienza, e d’essenza, perseguita in corso d’opera.