Lirica
WERTHER

Amore a prima vista

Amore a prima vista

Dopo la splendida Rusalka che ha inaugurato la stagione (recensione presente nel sito) e prima della ripresa del riuscito Rigoletto di Leo Muscato (recensione presente nel sito), l'Opera di Roma assesta un altro colpo perfetto con questo Werther nel celebre allestimento dell'Opera di Francoforte per la regia di Willy Decker qui ripresa da Jean-Louis Cabané.

Jules Massenet guarda ai caratteri scenici e musicali del verismo con un'impronta del tutto personale nel taglio lirico-drammatico dei personaggi, nella vocalità, nella strumentazione raffinata e suggestiva; in Werther il compositore non cerca effetti di facile presa sul pubblico ma piuttosto di tradurre con rara sensibilità gli aspetti più intimi della società borghese del tempo, della cultura letteraria e artistica che la rispecchiava e, soprattutto, dell'animo umano. Crea così un'opera musicalmente struggente, che parla direttamente al cuore e conquista l'ascoltatore con un uragano di note romantiche su un impianto verista. Siamo nel 1892 e Massenet nei primi due atti descrive l'ambiente sociale in cui la storia di Goethe è ambientata, mentre negli ultimi due indaga nelle pieghe dell'animo umano con un lucido e consapevole scavo psicologico (Freud e le sue teorie non sono lontani), componendo una partitura ricca di nuance: Werther è una storia d'amore a prima vista ma anche e principalmente la storia di due solitudini.

Il regista Willy Decker fa di queste solitudini la cifra interpretativa e non indugia su questioni, forse sorpassate, di critica sociale, pur presupponendole, ambientando tutto in un mondo chiuso e asfittico, nonostante una immensa apertura sul fondo. Complici le scene asimmetriche e claustrofobiche e i costumi (tutti omogenei nelle tinte del blu scuro tranne il protagonista, giallo all'inizio, bianco alla fine) del solito ottimo collaboratore Wolfgang Gussmann, come anche le luci nette di Joachim Klein realizzate da Agostino Angelini, la messa in scena è di forte impatto visivo e interiore. Dominante è il vuoto, un vuoto totale e assorbente, nella società, nella famiglia, nell'animo. Ovunque. Anche nell'amore. La prima scena è indimenticabile, da sola vale tutto uno spettacolo: la solitudine di due innamorati, due anime sospese nel vuoto, nel nulla. Lei nel blu poco illuminato dell'interno della casa, seduta su una sedia addossata alla parete, sotto il ritratto della madre. Lui nel giallo abbacinante di un esterno non meno vuoto e desolato, disteso a terra, poi in piedi, di spalle, che guarda lontano, come il giovane uomo di Caspar David Friedrich.
Come l'anima, anche il palcoscenico è desolatamente vuoto, nessun oggetto (se non qualche sedia e un tavolo), nessun elemento reale nella scena sghemba che spesso viene chiusa dal muro di fondo che scorre come una lama. Ritornano elementi consueti cari al regista: i luoghi miniaturizzati, case e chiese ridotte ai piccoli cubi grigi delle pitture di Braque, sempre più minuscoli, elementi con cui giocano i bambini. Infatti per Decker i luoghi sono simbolici, solo sfondo a questo nulla totale in cui neppure l'amore riesce a sopravvivere. Questo nulla insaziabile e onnivoro che tutto fagocita: “Un'unica scena racchiude l'anima di Charlotte. Dal suo piccolo mondo, intimo e borghese, solo lei riesce ad aprire uno squarcio nel cuore tormentato di Werther, puro e selvaggio, fortemente condizionato dalla forza della natura”, scrive il regista.

Sono diversi i momenti di felice regia, su tutti il primo incontro di Werther e Charlotte: i due rimangono folgorati e si bloccano l'uno perso negli occhi dell'altro mentre tutto intorno gli altri ballano e impazzano. Amore al primo sguardo. Ma anche l'atmosfera rarefatta e raggelante del lungo tavolo con intorno tutto il paese, le ombre che la luce algida allunga e ingigantisce sul muro blu damascato, la nevicata all'inizio del quarto atto durante la sinfonia con la neve che turbina sul corpo e nell'anima di Charlotte (quella neve che rimanda a un'altra solitudine russa, la solitudine di Anna Karenina). Qualche scelta poteva essere rivista, come il ritratto della mamma di Charlotte che passa in continuazione (troppo) di mano in mano e il tentativo di Charlotte di uccidersi con la stessa pistola dopo la morte di Werther salvata da Albert.

Jesùs Lòpez-Cobos ha assecondato l'intenzione registica, dando una lettura intima senza calcare sulle corde del verismo né eccedere nella vibrante tempesta romantica, in perfetto accordo con l'orchestra del teatro che merita un posto d'onore per la morbida pastosità del suono e la precisione dei solisti.

Francesco Meli sfoggia timbro luminoso e innata musicalità, dando un'interpretazione intensa del ruolo del titolo; la voce è importante e duttilmente si piega a sottolineare ogni sfumatura psicologica ma sa anche sfogare tutta la veemenza che le è concessa nel terzo atto, quando il pubblico applaude a scena aperta la struggente “Pourquoi me réveiller”. Veronica Simeoni ha voce luminosa e corposa in ogni registro e  padroneggia il ruolo di Charlotte, imponendosi nel doppio ruolo di figlia-madre-moglie (primo e secondo atto, coi capelli raccolti) e di innamorata (terzo e quarto atto, coi capelli sciolti). Ekaterina Sadovnikova è una giusta e fresca Sophie. Jean-Luc Ballestra rende la solida stabilità necessaria ad Albert. Affabile il Bailli di Marc Barrard. Giusti vocalmente, poco hanno convinto attorialmente Johann (Alessandro Spina) e Schmidt (Pietro Picone), poiché trasformati in una specie di “Gatto e Volpe”, due soggetti interscambiabili, ironici e divertenti in una narrazione che non è mai né ironica né divertente. A chiudere la locandina Claudia Farnetti, Michael Alfonsi e il coro di voci bianche del teatro diretto da José Maria Sciutto.

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