Parma, teatro Regio, “Werther” di Jules Massenet
IL RITORNO DEL GIOVANE WERTHER
Il Werther di Massenet chiude la stagione lirica di Parma, opera rappresentata di rado sul palcoscenico emiliano, ma di cui è ancora vivo il ricordo delle “storiche” recite al Regio di Alfredo Kraus, per molti appassionati modello ineguagliabile nel difficile ruolo.
Il capolavoro francese viene ora proposto nell’allestimento dell’Opera Giocosa di Savona con regia di Marco Carniti, ma fra i motivi d’interesse, considerato il tipo di pubblico per tradizione particolarmente attento alle voci, c’è il debutto di Francesco Meli, recentemente apprezzato a Parma nel repertorio verdiano.
La scena minimale di Alessandro Chiti è costituita da una stanza neutra con aperture mobili funzionali al movimento scenico ed al variare della profondità prospettica e delle luci. La regia offre qualche spunto interessante, ma non sufficientemente sviluppato e le luci di Palo Ferrari, troppo accese e contrastate per l’universo di Massenet caratterizzato da “demi-teintes”, anziché valorizzare le situazioni drammatiche spesso le snaturano.
Sulle note del preludio assistiamo al funerale della madre di Charlotte, antefatto il cui inserimento può risultare opinabile, ma che motiva lo sviluppo drammatico dell’opera e prefigura in quanto immagine funebre il destino di morte del protagonista. Gli elementi che compongono il feretro fungono da vassoi per la cena dei bambini piuttosto che piedistalli su cui si dispongono i fanciulli come belle statuine per ricreare intorno a una fontana illuminati da una luce verdina un’immagine edenica. Discutibile il paramento funebre che diventa coperta da salotto borghese, più riuscita l’atmosfera notturna che accompagna la scena nel giardino con il grande albero sullo sfondo visto oltre le tende svolazzanti mentre la casa riposa nella penombra.
Il terzo quadro vede un interno sottosopra, dai mobili bianchi accatastati alla rinfusa come in un quadro cubista, e anziché suggerire lo strazio interiore di Charlotte, genera comicità involontaria per l’incongruenza con l’esclamare di Werther (“Ici rien n’a changé que les coeurs, toute chose est encore à la place connue“) e si perde la commozione dell’incontro e la dolcezza dell’affiorare dei ricordi che preludono la lettura dei versi di Ossian.
Il suicidio avviene a sipario chiuso, dietro a un velluto rosso che, come in un film, lascia presagire il dramma. Alla fine Werther è adagiato su pile di libri in omaggio a un grande protagonista della letteratura europea, ma la bella immagine viene pregiudicata da una morte in piedi: una camminata all’indietro in una sorta di trasfigurazione con una luna alonata sullo sfondo.
L’intensa esecuzione musicale compensa i limiti della regia.
Il giovane Francesco Meli, alle prese con un ruolo che richiede grande maturità interpretativa, conquista il pubblico per la voce naturale e solidissima e un canto spiegato e ben calibrato senza traccia d’incertezza.
Se pur coinvolgente (come l’intenso “Pourquoi me reveiller” carico di slancio e disperazione), l’interpretazione di Meli è ancora stilisticamente lontana da Massenet, dal suo lirismo intimista che va spesso sottaciuto e sfumato, dal modulare il canto seguendo la ritmicità della lingua francese e la particolare intonazione del verso. Ma non dimentichiamo che si tratta di un impegnativo debutto.
Sonia Ganassi offre un’interpretazione intensa di Charlotte con voce controllata e vibrante, capace di trovare le giuste sfumature e variare gli spessori in modo drammatico senza scadere nella maniera in linea coi dettami della comédie lyrique.Particolarrmente toccante e raffinata la lettura della lettera e “Les larmes qu’on ne pleure pas”.
Convince Serena Gamberoni, incantevole Sophie per grazia scenica, dalla voce lirica e luminosa. L’interpretazione senza traccia di affettazione lascia intravedere accenni di consapevolezza e ironia che rendono il personaggio più maturo e vicino alla sorella maggiore.
Giorgio Cadauro è un Albert di voce piena e morbida, ma, anche per limiti di dizione, il ruolo non risulta troppo approfondito e non riesce ad emanciparsi da ruolo di secondo piano.
I due amici sono divertenti, ma il francese e l'intonazione di Schmidt di Nicola Pamio sono approssimativi; meglio il Johann di Omar Montanari. Apprezzabile e preciso il borgomastro di Michel Trempont.
Concludono il cast la Kätchen di Azusa Kubo e Brühlmann di Seung Hwa Paek.
Michel Plasson, specialista del repertorio francese di fine Ottocento, adotta tempi meno lenti ed estenuati di quelli proposti di recente a Parigi, conferendo un maggiore senso di continuità e coesione alla partitura.
La direzione scandisce l’incalzare del dramma alternando momenti di ripiegamento ed espansione con un impasto orchestrale ricco di colori e sfumature.
Curata la prova del Coro di voci bianche preparato da Sebastiano Rolli.
Grande successo da parte di un pubblico elegante e partecipe che ha espresso particolare apprezzamento al protagonista e qualche dissenso nei confronti della regia.
Ilaria Bellini