Napoli, teatro di San Carlo, “Werther” di Jules Massenet
LA SOLITUDINE DI DUE CHE SI AMANO
Massenet guarda ai caratteri scenici e musicali del verismo con un'impronta del tutto personale nel taglio lirico-drammatico dei personaggi, nella vocalità, nella strumentazione raffinata e suggestiva; in Werther non cerca effetti di facile presa sul pubblico, ma piuttosto di tradurre con rara sensibilità gli aspetti più intimi della società borghese del tempo, della cultura letteraria ed artistica che la rispecchiava e, soprattutto, dell'animo umano. Crea così un'opera musicalmente struggente, che parla direttamente al cuore, conquistando l'ascoltatore con un uragano di note romantiche su un impianto verista. Siamo nel 1892 e Massenet nei primi due atti descrive l'ambiente sociale in cui la storia di Goethe è ambientata, mentre negli ultimi due indaga nelle pieghe dell'animo umano con un lucido e consapevole scavo psicologico (Freud non è lontano con le sue teorie), componendo una partitura ricca di nuance.
Werther è una storia d'amore, ma principalmente la storia di due solitudini. Il regista Willy Decker fa di queste solitudini la cifra interpretativa e non indugia su questioni, forse sorpassate, di critica sociale, pur presupponendole, ambientando tutto in un mondo grigio ed asfittico nonostante una immensa apertura sullo sfondo. Complici le belle scene e i costumi (omogenei nelle tinte del blu scuro, tranne il protagonista, giallo all'inizio, bianco alla fine) del solito ottimo collaboratore Wolfgang Gussmann, come anche le luci nette di Joachim Klein, la messa in scena è di forte impatto visivo e interiore. Dominante è il vuoto, un vuoto totale ed assorbente, nella società, nella famiglia, nell'animo. Ovunque. Anche nell'amore.
La prima scena è indimenticabile, da sola vale tutto uno spettacolo: la solitudine di due innamorati, due anime sospese nel vuoto, nel nulla. Lei nel grigiore poco illuminato dell'interno della casa, seduta su una sedia addossata alla parete, sotto il ritratto della madre. Lui nel giallo abbacinante e lunare di un esterno non meno vuoto e desolato, disteso a terra, poi in piedi, di spalle, che guarda lontano, come il giovane uomo di Caspar David Friedrich nella copertina del programma di sala.
Come l'anima, anche il palcoscenico è desolatamente vuoto, nessun oggetto (se non qualche sedia), nessun elemento reale nella scena sghemba che spesso viene chiusa dal muro di fondo che scorre, come una lama. Ritornano elementi consueti, cari al regista, i luoghi miniaturizzati: case e chiese ridotte ai piccoli cubi grigi delle pitture di Braque, sempre più minuscoli, fino a diventare elementi con cui giocano i bambini. Infatti per Decker i luoghi sono simbolici, solo sfondo a questo nulla totale in cui neppure l'amore riesce a sopravvivere. Questo nulla insaziabile ed onnivoro che tutto fagocita.
Sono diversi i momenti di felice regia, il primo incontro di Werther e Charlotte (i due rimangono folgorati e si bloccano l'uno perso negli occhi dell'altro, mentre tutto intorno gli altri ballano e impazzano), l'atmosfera rarefatta e raggelante del lungo tavolo con intorno tutto il paese, le ombre che la luce algida allunga e ingigantisce sul muro blu damascato, e la nevicata all'inizio del quarto atto, durante la sinfonia.. quella neve che turbina sul corpo e nell'anima di Charlotte, quella neve che rimanda ad un'altra solitudine, quella di Anna Karenina.
Peccato per altre scelte non condivisibili: il ritratto della mamma di Charlotte che passa in continuazione (troppo) di mano in mano: lo staccano dal muro, lo attaccano, lo posano in ogni dove. Oppure le pistole che compaiono fin dall'inizio e che, invece che preludere alla fine, sono solamente fuori luogo. O ancora il tentativo di Charlotte di uccidersi con la stessa pistola dopo la morte di Werther e viene salvata da Albert, troppo banale e prevedibile.
Il ruolo del titolo è arduo, estraneo ai grandi tenori “tuttofare”, compreso l'irraggiungibile Di Stefano che lo affrontò solo da giovane. Josè Bros si rivela in grado di mettere da parte il puro edonismo vocale per dedicarsi completamente allo scavo della parola, allo studio del silenzio, all'eloquenza della gestualità. La sua voce duttile si piega ad ogni sfumatura psicologica immaginata da Massenet, una voce che sa sognare e sa far sognare la platea. Sognare e piangere. Una voce che sa anche sfogare tutta la veemenza che le è concessa, come nel terzo atto, quando, generosamente, a furor di pubblico, il tenore concede generosamente il bis della struggente “Pourquoi me réveiller” (confesso di avere faticato a trattenere le lacrime..). Bros è convincente nella totalità dell'amore (“Non so se è giorno, non so se è notte, il mio essere resta indifferente a quel che non è in te”), ribellandosi alla resistenza di Charlotte nell'esclusività di un sentimento che solo giustifica il vivere. E il morire. Infatti, rispetto al romanzo epistolare di Goethe, il Werther di Massenet non è perso nello spleen esistenziale, ma è in the mood for love, così vicino all'uomo contemporaneo. Troppo vicino.
Sonia Ganassi è una insuperabile Charlotte e riesce a passare dalle corde del mezzosoprano acuto a quelle del soprano drammatico. A otto anni dalla messa in scena al Regio di Parma, la Ganassi padroneggia il ruolo, imponendosi per vocalità ed attorialità, con una intensità da brivido. Nei primi due atti si comporta principalmente da figlia, da sorella e da moglie, dando subito l'idea di una compressione dell'interiorità, dovuta alla promessa alla madre morente e al ruolo familiare che la vita (il destino?) le ha assegnato. Ma nel terzo atto la Ganassi può finalmente sfogare tutta la sua sontuosa voluttà vocale, senza mai toccare i toni veristici che purtroppo interpreti meno raffinate del personaggio sfruttano. Meglio di così non si può: l'amore e la solitudine causata dalla sua mancanza non possono essere cantati in modo migliore della recita a cui ho assistito.
Bravissima Donata D'Annunzio Lombardi, che si affranca in modo egregio da Musetta, ruolo a lei congeniale al punto quasi da “imprigionarla”: qui ha dimostrato, se mai ce n'era bisogno, di essere una cantante eccellente, anche in altri ruoli. Debole e appannato vocalmente l'Albert di Albert Schagidullin; discreto il Bailli di Enzo Capuano. Non mi hanno convinto invece Johann (Andrea Porta) e Schmidt (Pietro Picone), trasformati dal regista in una specie di “Gatto e Volpe”, due soggetti interscambiabili, ironici e divertenti in una narrazione che non è mai né ironica né divertente.
Yoram David ha assecondato l'intenzione registica, dando una lettura intima e meno drammatica della partitura: risultato convincente soprattutto negli atti terzo e quarto, perchè assecondato dall'orchestra del San Carlo in ottima forma Non funziona invece l'avere attaccato gli atti primo e secondo senza neppure un secondo di pausa, quando invece il grido di Werther solo e disperato “Un autre!... son époux!...” necessitava di almeno qualche attimo di silenzio.
Il pubblico, distante e un poco rumoroso nel corso della recita, alla fine ha applaudito a lungo: difficile dimenticare quelle immagini struggenti di vuoto, di solitudine che impedisce all'amore di vivere. Difficile dimenticare il peso delle lacrime sull'anima, che martellano un cuore triste, come canta Charlotte (“Les larmes qu'on ne pleure pas, dans notre ame retombent toutes, et de leurs patientes gouttes martélent le coeur triste et las”).
Visto a Napoli, teatro di San Carlo, il 26 maggio 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
San Carlo
di Napoli
(NA)