Non appariva sulle scene del Teatro La Fenice di Venezia da più di vent'anni. A reggere su tutti è giunto da Oltralpe un direttore di non comune sensibilità, Guillaume Tourniaire
Non appariva sulle scene del Teatro La Fenice da più di vent'anni, il Werther. Cioè da quando - correva il 1998 – l'istituzione veneziana trovava temporanea ospitalità sotto i tendoni del PalaTronchetto. E più indietro, per trovarne un altro dobbiamo risalire al febbraio 1965.
Tre edizioni in oltre mezzo secolo sono poca cosa, per un'opera così tanto amata dal pubblico: non solo per la seducente musicalità – il pregio principale - ma anche perché, come ha dichiarato il direttore d’orchestra Guillaume Tourniaire, la teatralità di Massenet «ha saputo parlarci delle gioie, dei dubbi, degli amori, del malessere, della disperazione, dei sollievi, delle ambiguità di tutti i suoi protagonisti». Arrivando dritto al cuore dello spettatore.
Riappare uno spettacolo assai piacevole
In realtà, questa edizione – che riprende un fortunato spettacolo bolognese del 2016 – è inciampata subito nell'indisposizione di Piero Pretti, al debutto nel ruolo principale, che purtroppo ha dovuto accontentarsi delle ultime due recite. E stato sostituito nelle altre da colleghi convocati di corsa, Jean-François Borras e Sébastien Guèze: il quale, in realtà, non ci è parso un Werther pienamente risolto, soprattutto perché la intima malinconia del personaggio, il suo spleen, sfociano talora in marcata esagitazione. E poi mancano dolcezza, calore, morbidezza, abbandono in una condotta di canto tendenzialmente corta ed aspra nel registro superiore.
teatro.it_Werther_Ve_2019_1_FotoMicheleCrosera
Sonia Ganassi risulta manierata all'inizio, là dove le sfugge il candore adolescenziale di Charlotte, quando scopre cosa sia un vero, subitaneo innamoramento. Ma più avanti, nell'Aria delle lettere e nel sinistro epilogo dell'opera, siamo su un altro pianeta: la passionalità emerge e l'interpretazione diviene superba, nella tragica scansione drammatica, facendo leva su di un canto patetico e limpido, screziato di dolore. Comprimariato ben scelto: Armando Gabba è un gustoso, bonario Bailli; Pauline Rouillard è un'esile, ma pur graziosa Sophie; il compassato Albert trova un interprete consono in Simon Schnorr; Schmidt e Johann sono assai ben disegnati da Christian Collia e William Corrò.
Ineccepibile la prova dei piccoli cantori del Kolbe Children's Choir, preparati da Alessandro Toffolo.
Un direttore francese, giusto per non sbagliare
A reggere su tutti è giunto da Oltralpe un direttore di non comune sensibilità, Guillaume Tourniaire. Lo vediamo creare un'uniformità di atmosfere che salda insieme i singoli episodi, percependo Werther come un concitato, lunghissimo duetto d'amore. E, in fondo, è proprio così. Netta poi l'intesa raggiunta con l'orchestra della Fenice, da cui ottiene abbandono, tenerezza effusiva, suoni tendenzialmente morbidi, una cangiante paletta di colori e di spessori sonori; cose che rendono piena giustizia al capolavoro di Massenet.
Gli accurati costumi di Claudia Pernigotti ci immergono in uno schietto '800; le scene di Tiziano Santi piazzano di lato due alti tigli, al centro una grande casa di bambole dal lindo interno borghese; la stessa sagoma, voltata, abbozza la chiesa di Wetzlar. Il terzo atto è dominato da un'imponente libreria, il quarto vede in scena solo una rossa poltrona. E' la stessa dalla quale Werther sin dall'inizio, con già in mano l'arma ferale, rivede idealmente dipanarsi la sua infelice storia come in un flashback. Idea non nuova, ma pur sempre valida.
Prende comunque subito lo spettatore, questa regia di Rosetta Cucchi: segue sentieri battuti, senza divagazioni, e scorre fluente; procede con pochi tratti essenziali, ma pertinenti; si addentra nel racconto con intelligenza e sensibilità, disponendo con scioltezza le iniziali scene d'insieme, pronta a serrare infine il cupo dramma intorno ai due protagonisti. Giusto il momento di lasciar scorrere due belle lagrimucce sulle guance.