Pur ben definito in ogni suo istante, “Will” sicuramente non é uno spettacolo che si presta a una facile descrizione. Lo stesso, probailmente accade con il gioco dei sogni. Anche quelli, spesso, sono difficili da raccontare in modo intelligibile.
Cosa si prova a usare il corpo di un altro per raggiungere il proprio desiderio? Quale è il limite del lecito? Dove finisce l’intimità? Sono le domande che Valentina Buldrini e Martina La Ragione, ideatrici e protagoniste della performance, si sono poste. Il risultato di questa loro importante ricerca nel campo di psicoanalisi è “Will”, l’iconografia di un conflitto irrisolvibile tra inconscio e razionale, tra sogno e realtà, tra l’Io e l’Es…
Lo spazio scenico delimitato da un sipario semitrasparente è il luogo dove tutto è ammesso e ogni fantasia può essere vissuta. La composizione drammatica rappresentata attraverso la danza di contatto mette lo spettatore davanti a due personalità fragili, in preda alle loro pulsioni aggressive e auto-distruttive, dominate dalla paura dei propri istinti.
La performance nella sua integrità si presenta come l’equivalente coreografico di un percorso di ricerca interiore. Come attraverso un prisma, i simboli vengono scomposti con l’idea di trovare gradualmente il punto della loro coesione. Ogni quadro è accompagnato da un brano musicale di forte impatto acustico che, in teoria, dovrebbe aiutare il pubblico a risolvere il rebus che questi si trova davanti. Passo dopo passo la mente si apre alle interpretazioni, nessuna dei quali, però, può essere considerata né definitiva né esatta.
Si potrebbe supporre, per esempio, che due lunghe e morbide passatoie bianche siano l’allegoria della vita intrauterina, calda e accogliente, che viene bruscamente interrotta dal trauma della nascita, rappresentata come l’antichissima posizione yogica rovesciata, Sarwangasana. Quindi i visi distorti delle protagoniste alla fine del primo quadro - molto simili all’urlo di Munch – rivelano l’orrore che un neonato dovrebbe provare trovandosi catapultato fuori dal grembo materno. Le scarpe con i tacchi – ambitissimo oggetto per ogni bambina – alludono al rito di passaggio dall’adolescenza (culottes bianche) all’età matura (slip color carne, t-shirt buttate via). Per cui l’estenuante danza ginnica sui tacchi, alla quale si sottopongono le protagoniste, non potrebbe essere altro che una prova da superare per essere ammesse al mondo adulto dove finalmente si può “restituire al corpo tutto ciò che non dovrebbe mostrare” (come cita la brochure dello spettacolo). Alla fine, sazie e stanche della realtà piena di “perversione" (il travestimento con la pelliccia e il telo termico in stile "La bella e la bestia"), "distorsione, compenetrazione” (la scena con le corde con elementi sadomaso) le due si rendono conto che il mondo circostante è un luogo più “estraneo” che “intimo” (sempre citando la brochure) e, restando con l’amaro in bocca (cosi si potrebbe interpretare le loro bocche sporche di nero), si sporgono fuori dal sipario ripetendo nuovamente l’espressione di Munch …
Le scene si susseguono, sorgendo negli abissi dell’inconscio, e l’impressione che alla fine viene a crearsi è che, essendo troppo concentrato su se stesso, lo spettacolo faticasse a comunicare, a trasmettere non solo il messaggio (il che sarebbe il meno), ma soprattutto quel flusso di energia che in generale contraddistingue l’arte del movimento. E malgrado le ballerine ce la mettono tutta per riscaldare l’atmosfera – si trascinano per terra e si tirano per i capelli, si spogliano, si esibiscono persino in una macabra danza psichedelica che, presumibilmente, dovrebbe svelare le passioni e le perversità più estreme - il pubblico stenta a comprenderle e tanto meno farle proprie. Il clima in sala a poco a poco comincia a diventare apatico e saturo di stanchezza e alla fine della performance si arriva quasi per inerzia. Con poca voglia di risolvere il rebus.