Lirica
WOZZECK

Il coltello nel corpo

Il coltello nel corpo

Il Wozzeck di Alban Berg, tratto dai frammenti del Woyzeck di Büchner, è opera espressionista per eccellenza, innovativa per la struttura a scene caratterizzate da una propria autonomia formale ma anche per  la tematica originale: il soldato sfruttato ridotto all’alienazione la cui unica via di fuga è l’autodistruzione. Alla Scala in chiusura di stagione torna nell’allestimento di Jürgen Flimm, più volte riproposto sul palcoscenico milanese, ma che conserva a distanza di anni inalterata efficacia scenica e drammatica.

Erich Wonder adotta un impianto fisso costituito da due quinte concave giustapposte sviluppate in verticale e situate al centro della scena che costituiscono “cuore”  e “fuoco” dell’azione scenica. Le pareti sono rosse come il sangue, immagine ricorrente nel libretto, e le luci radenti di Marco Filibeck le rendono di volta in volta livide o accese in sintonia con la situazione drammatica e si illuminano delle parole di Marie “Preferisco un coltello in corpo che una mano sopra di me” scolpite in tedesco come un’epigrafe. Nera è la parete di fondo retrostante, animata da un’apertura ellittica schiacciata che si sviluppa in orizzontale a tutta larghezza simile a labbra o palpebre socchiuse per svelare paesaggi stilizzati. Non a caso la veduta iniziale della collina coperta di copertoni di pneumatici tornerà nell’epilogo a sancire la circolarità dell’opera. Scene e  interludi con cui è costruita l’opera si susseguono qui senza cesure in un fluire inevitabile verso la catastrofe marcato da un progressivo avvitamento drammatico.
Gli intermezzi sinfonici funzionano da Verwandlungsmusik e nelle intenzioni di Flimm  si affollano di figure surreali (una bimba in tutù, un cavallo formato da due mimi, assistenti medici col cilindro nero, borghesi e ballerini, soldati coi cappellini di carta) che sfilano lungo la scena generando immagini spesso grottesche che marcano le dissonanze espresse dalla musica e suscitano un senso di  déjà –vu nello spettatore (dai quadri di Grosz ai cabaret berlinesi anni ’20).

La regia di Flimm si modula, oltre che sul movimento delle comparse, sulla gestualità e sulle caratteristiche fisiche proprie dei cantanti, dando luogo a una rappresentazione realista di forte impatto emozionale. Nella prima scena Wozzeck è un personaggio di segno neutro, per non dire grigio, colto nella sua stasi e pacatezza, ma a partire dalla scena nel bosco i movimenti cambiano di segno: si ravvisa una progressiva intensità nello sguardo, nel tremito della mano, nella postura china dalla linea spezzata. L’imponente corporatura, disarticolata e svilita (come quando mangia i fagioli carponi o subisce la visita del dottore in piedi seminudo su una sedia) marca una forte impotenza tragica e suscita istintiva compassione nello spettatore ed è di forte impatto la grande lampada che nella scena dell’annegamento cala dall’alto fino a schiacciare Wozzeck nell’abisso.
In questo allestimento il pazzo ha un ruolo di rilievo (in quanto “outsider” per natura ha delle affinità elettive con Wozzeck) ed è spesso in scena intento ad accudire il bambino. Non si sa quale sia l’origine del legame che lega pazzo e bambino, ma dal loro confronto scaturiscono squarci di tenerezza (come quando il pazzo crea un giaciglio per il piccolo mettendo un cuscino su due sedie) e il regista stempera l’amaro finale in quanto il bambino pronuncia il suo “hopp hopp” seduto in groppa al  gigante folle (ma buono) anziché condannato alla solitudine immaginata da Berg.

Protagonista indiscusso il  Wozzeck di  Michael Volle di cui si apprezza, oltre alla voce scura e compatta capace di riempire il teatro, la capacità di scavo di uno “Sprechgesang” decisamente drammatico che nulla sacrifica a musicalità  e controllo; il suo Wozzeck è rassegnato e sconfitto, consapevole della propria miseria, come si ravvisa nella dolce e pacata “wir arme Leute”, priva di accenni di ribellione. La Marie di Ricarda Merbeth è una donna disillusa e sfiorita, consapevole del proprio destino; la tenuta vocale è apprezzabile soprattutto nell’acuto e la prova risulta in crescendo toccando il suo apice nell’introspettiva scena della lettura del Vangelo nel terzo atto. Di  ottimo livello  il resto della compagnia a partire dal Tamburmaggiore lascivo e impettito di Roberto Saccà che ben coglie cinismo e squallore di un “Miles Gloriosus” dei deboli e la voce da Heldentenor consumato regge lo scarto drammatico. Ben caratterizzati, soprattutto scenicamente, i personaggi del Capitano (Wolfgang Ablinger-Sperrhacke) e del grottesco Dottore (Alain Coulombe), Michael Laurenz è un Andres triste e malinconico. Rudolf Johann Schasching è il pazzo, un gigante buono  che commenta e partecipa al dolore degli umili.
Bene anche gli altri: la Margret di Marie-Ange Todorovitch, gli apprendisti rispettivamente interpretati da Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius e il bambino di Tito Comoglio.

Ingo Metzmacher è specialista del repertorio tedesco contemporaneo e del capolavoro di Berg dà una lettura tesa e asciutta, affilata come la lama di Wozzeck. La concertazione consegue il difficile equilibrio fra la precisione cameristica dei singoli strumenti trattati in modo analitico (un plauso all’orchestra della Scala per nitore e brillantezza di suono), con la turgida espansione sinfonica che esplode in uno schianto in fortissimo o in un non meno drammatico silenzio. Il gioco di contrasti è ben leggibile e anche gli interventi degli strumentisti disposti sul palcoscenico risultano ben amalgamati. Rispetto ad altre edizioni l’espansione lirica è più sorvegliata e sottaciuta ma è coerente con la regia e si ha l’impressione di essere trascinati in un vortice drammatico lanciato contro la catastrofe.

Meritati applausi per tutti alla fine, con particolare entusiasmo per protagonista e direttore. Wozzeck all’estero fa spesso il tutto esaurito (e non solo in Germania), peccato che a uno spettacolo di tale livello non abbia corrisposto pari affluenza di pubblico.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)