Lirica
WOZZECK

Milano, teatro alla Scala, “W…

Milano, teatro alla Scala, “W…
Milano, teatro alla Scala, “Wozzeck” di Alban Berg WOZZECK SENZA RESPIRO Fondamentale per la vita e l'opera di Alban Berg fu l'incontro con Schönberg, con cui restò profondamente legato fino alla morte e che contribuì alla sua maturazione artistica negli anni in cui Berg era in fecondo contatto anche con Mahler. Attraverso quell'incontro Berg aderì al principio dell'atonalità, cioè all'emancipazione della dissonanza dalle funzioni tonali. Wozzeck, ritenuto l'opera espressionista per eccellenza, emblematica della musica del primo Novecento, si impone per la sintesi espressiva e l'implacabile tensione psichica in cui si coagulano le angosce e le rivolte che la società borghese alimentava dentro di sé negli anni Venti ed ha un forte contenuto di contestazione verso coloro che utilizzavano per i loro scopi le persone più deboli e fragili, vittime della violenza e della prevaricazione sociale. Berg abbandona la struttura tradizionale dell'opera: ogni scena, delle quindici di cui si compone Wozzek, si basa su schemi di forme strumentali diversi dalle consuete arie, recitativi, concertati. La regia di Jürgen Flimm dà molto rilievo al pazzo-bambinaio che è spesso in scena: pantaloni oversize sostenuti ad altezza ascellare da straccali, capelli arruffati, senza scarpe, un guanto rosso e uno bianco (i costumi sono di Florence von Gerkan). Infatti, nonostante le poche frasi musicali, il pazzo si pone come figura centrale dell'allestimento, figura simbolo. Struggente quando appoggia il bambino sopra un cuscino in un lettino improvvisato tra due sedie. Lacerante quando assiste impotente ai moti di desiderio di Maria e alle farneticazioni mentali di Wozzeck. Commovente quando si rannicchia a dormire per terra, in posizione fetale, sulla porta di casa, come un servo dell'antichità. Metafisico, come quel corteo che ogni tanto passa con una bambina-ballerina seduta sopra un cavallo impersonato da due saltimbanchi coronato da lucine, omini e donnine che sembrano usciti dai quadri di Magritte oppure da un sogno, e che contrastato con la cupa fatalità della vicenda. La scena di Erich Wonder è unica per i tre atti. Sulla parete di fondo un'apertura con la forma di un occhio, anzi della visuale che si ha tra le palpebre semichiuse. Al centro due pareti curve che costituiscono via via i vari ambienti con pochi oggetti di scena. Efficace. Daniele Gatti ha mano felicissima nell'affrontare la partitura senza intervalli (e senza spartito), un'ora e quaranta minuti di tensione dolorosa e partecipata. La direzione sottolinea il linguaggio musicale ancora liberamente atonale, ma con molte aggregazioni armoniche che richiamano le tonalità. Gatti esalta con morbidezza e suoni pieni le scurezze espressioniste, ma anche le sentimentalità dei momenti struggenti dei quadri materni. Non tralascia le asprezze caustiche, esaminate con piglio scientifico. Utilizza i riferimenti ai motivi popolari per rappresentare, in un realismo distorto, l'autenticità interiore dei personaggi che la miseria più cruda opprime. Gatti scuote l'anima, impone un'interiorizzazione della vicenda, una profonda riflessione; libera ogni segreto contenuto nel pentagramma, mantiene tempi misurati; amalgama alla perfezione buca e palco. “L'essere umano è un abisso, vengono le vertigini a guardare giù” canta Wozzeck: ma le vertigini sono venute ascoltando l'Orchestra diretta da Daniele Gatti. Uno spettacolo di straordinaria presa emotiva e di altissimo livello qualitativo, di cui va dato merito al cast per le voci e le capacità attoriali, anche nei ruoli di contorno. Georg Nigl è un convincente Wozzeck, nevrotico e delirante, fragile e umano, magrissimo, scavato quando rimane a torso nudo, glabro, emaciato. Evelyn Herlitzius è una bravissima Maria con insondabili problemi di affettività, vittima di una vita crudele, una donna sola che sprofonda nelle ristrettezze al punto da spingersi alla rabbia più pura. Il dottore è Markus Marqardt in un personaggio che incute terrore e rabbia al tempo stesso. Il capitano è Wolgrang Ablinger-Sperrhacke, voce meno acuta di quanto la partitura preveda, dal tono meno dolciastro e femmineo ma assolutamente convincente. Endrik Wottrich è un Tamburmaggiore che si impone per aspetto fisico. Toccante, intimissimo come l'uomo dei sogni, il Pazzo di Heinz Zednik, l'angelo custode del piccolo bimbo di Maria, figura centrale di questo allestimento, quasi sempre in scena. Con loro Marlin Miller (Andres) e Ute Döring (Margret). Da segnalare il piccolissimo, tenero, indifeso bambino, Emanuele Zanichelli, a cui è affidato il flebile, rassegnato “hopp hopp” finale che risuona nel disfacimento. Bene il coro, preparato da Bruno Casoni. Pubblico caloroso e prodigo di applausi alla fine, seppure non numerosissimo: stupisce questa diffidenza nei confronti del titolo ma è da lodare incondizionatamente la scelta della direzione artistica, che ci si augura prosegua lungo questa strada, imponendo anche nel poco partecipe pubblico italiano la musica del Novecento. Visto a Milano, teatro alla Scala, il 28 febbraio 2008 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)