Yerma (1934) di Federico Garicia Lorca, è incentrata sulla figura di una giovane sposa che soffre nel non avere quella prole il cui concepimento darebbe un senso a una vita altrimenti priva di scopo.
Una sterilità non biologica ma circostanziale, causata da un marito poco propenso al sesso e per niente attratto dall'idea di diventare padre.
Il focus della tragedia sta nella contraddizione che nasce all'interno dello stesso alveo familiare, patriarcale e mediterraneo, che impone alla donna un ruolo materno che, nel momento in cui le viene sottratto, svuota la sua esistenza di qualunque significato.
Cos'altro può fare Yerma oltre che la madre in un mondo che le riconosce solamente quel ruolo?
A poco valgono i consigli popolari come quello di prendersi il figlio di qualcun altra o di darsi a un uomo che di figli ne voglia.
Yerma vuole figli solamente dall'uomo che ha sposato, senza amore, in obbedienza alla volontà paterna.
Un patriarcato talmente interiorizzato che quando il marito ammette di non volere figli Yerma lo strangola, gridando al mondo di avere ucciso suo figlio.
Un racconto attualissimo che Gianluca Merolli (che oltre a firmare la regia interpreta anche il marito di Yerma) allestisce in maniera splendida, portando in scena un testo sostanzialmente fedele all'originale (tranne qualche rimaneggiamento nel terzo atto) presentato nella felice traduzione di Roberto Scarpetti che ne attualizza il lessico.
Quattro performer, due uomini e due donne, restituiscono i numerosi personaggi del testo (tranne Elena Arvigo che interpreta esclusivamente Yerma) mentre un cantante si sostituisce a tutti gli inserti lirici del testo, con una partitura sonora, di Luca Longobardi, che non è mai esornativa ma sempre parte della narrazione.
Sulla scena scarna campeggiano quattro sedie di metallo con gli schienali alti, mentre la sabbia ricopre oggetti e figure umane, quest'ultime presentate nella doppia veste di immagini archetipali (con tanto di maschere al volto) e di personaggi.
Yerma emerge, nuda creatura, dalla sabbia, polverosa e asciutta, come la sterilità cui è condannata e si relaziona agli altri personaggi in uno spazio pensato per stazioni.
Molte le invenzioni, di regia e scenografiche.
Il mantello tessuto in fil di ferro che cala dall'alto sotto il quale ben tre performer interpretano all'unisono la vecchia atea che consiglia a Yerma di trovarsi un uomo che abbia voglia di fare figli; due ragazze del paese interpretate da un uomo e una donna che indossano pellicce e parrucche e scarpe coi tacchi (forse l'unica caduta di stile); le lavandaie interpretate da due uomini e una donna con dei vistosi baffoni posticci che ora sembrano corna taurine ora ricordano i filiformi baffi di Salvator Dalì.
Ancora, una delle sedie issata da quattro corde sulla quale Yerma si innalza da terra quando spiega alla sua amica Maria che il sentimento che prova contro la maternità dell'amica non è invidia ma miseria, fino alle modifiche nel terzo atto nel quale le pratiche para-religiose propizie alla maternità, di immediata comprensione al pubblico contemporaneo a Lorca, ma oscure alle platee contemporanee, sono sostituite da una clinica della sterilità con tanto di siringoni che riproducono il getto dell'orgasmo maschile mentre sulle quattro sedie, affiancate a mo' di cattedrale moderna, campeggia l'insegna sacrale che recita Santa Cirinnà.
Gli interventi sul terzo atto e la messinscena non costituiscono delle forzature ma, al contrario, delle glosse intelligenti che danno risalto e intelligibilità al testo che non viene snaturato ma confermato nell'universalità del suo costituire un monumento alla costruzione laica del senso di sé, della propria esistenza, in un orizzonte di valori cui Yerma è l'unica a non tradire.
Curatissima la direzione dei e delle performer, sostenuta dal contributo di scene, luci, costumi e musica, la cui precisione ci fa ricordare che, a saperlo fare, il teatro è ancora una forma d'arte elevatissima eppure di appannaggio universale.