Mentre si accede in platea alcuni monitor alternano immagini di morte a immagini del creato, mentre un sottopancia informa che l'universo è in espansione e che l'energia oscura costituisce il 70% dell'universo, secondo le ultime osservazioni sperimentali (sic!).
In platea, permeata di fumo, sulla parete di sinistra un personaggio dalla pelle annerita, la testa cinta di una corona di spine, beve, fuma e ingoia pillole.
Quando le luci in sala si spengono la sua voce amplificata da un microfono ci informa che l'umanità è scomparsa e che l'ultimo e l'ultima sopravvissute sono incapaci di suicidarsi e vivono una esistenza senza tempo.
Mentre la figura divina si occulta dietro le quinte l'uomo e la donna, con dei costumi da mondo classico, tranne una gomitiera di metallo, si affrontano e confrontano.
Lui, affranto e disperato, non si capacita della loro sterilità e immortalità e vagheggia di avere un ventre gravido per offrire alla donna quel seno sul quale lei non ha mai potuto poggiarsi.
Lei, inferocita, non sopporta l'accidia del compagno e gli intima più volte di smettere e di tacere. Su di un velatino vengono proiettati riferimenti biblici che fungono da titoli e capitoli dello spettacolo.
Nel finale i due protagonisti, denudatisi, à la Adamo ed Eva di Masaccio, lasciano la scena e si incamminano dietro il velatino dove lavano e confortano la divinità, non più in un rapporto di subalternità, ma come possono fare due adulti con un bambino o con un animale ferito.
Spiazza Yesus Christo Vogue, opera terza di Vucciria Teatro che affronta un argomento totalmente diverso (l'assenza del divino nella nostra contemporaneità) e lo fa con un testo di poesia che mette a dura prova Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano e non certo per il nudo integrale di chiusura.
Mai come questa volta il lavoro drammaturgico di Joele Anastasi si fa suggestione, invitando il pubblico a perdersi nei meandri di un testo tutto da scoprire.
Non opera aperta, ma un opera da dischiudere, il cui disvelamento è affidato al pubblico.
Un testo da rivelare solo se gli si permette di sedurci perdendocisi dentro.
Molte le suggestioni: il capovolgimento scatologico tra umano e divino con un cristo figlio del genere umano che riversa in lui tutte le idiosincrasie di una incapacità a dirimere un mondo che è creazione umana, per cui quel perdonare la divinità è un reintegrare in sé quel superomismo proiettivo che abbiamo legato a una divinità, padre e maschia, che si è defilata perché è l'umanità ad essersi defilata da se stessa.
Ancora, il materno conteso tra maschio e femmina, che dà adito tanto a letture simboliche quanto a riferimenti alla contemporaneità (non ultima quella voglia di fare figli delle coppie maschili con l'ausilio della GPA, che aspirano, secondo alcune donne, a sostituirsi loro).
Sono solamente alcune delle suggestioni tutte squisitamente secolari e umanissime che il testo affronta con un sapore tragico e che la messinscena mostra con un'aura di mistero, allestendo un glifo solo apparentemente poco decifrabile.
La croce del cristianesimo non è più eretta e giace (simbolicamente?) a terra campeggiando sulla scena come paesaggio roccioso nella quale trovano spazio delle pozze d'acqua dove il maschio si specchia, novello Narciso, e quale forma di narcisismo più grande di quella dell'essere umano che proietta fuori da sé una visione superumana di se stesso chiamandola dio?
Yesus Christo Vogue si presenta con un nuovo illuminismo non più della ragione ma del sentimento, della sensazione del corpo e della carne.
La carne doppiamente sessuata di un genere umano che risorge da se stesso se impara a perdonare un dio assente e poco empatico.
Grandi Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano in uno spettacolo che può anche non convincere o non piacere, ma che non per questo suscita indifferenza lasciando a chi l'ha visto l'impressione di avere assistito a un momento di verità umana, dunque squisitamente nostra.