La terza opera che il Festival della Valle d’Itria ripropone quest’anno è la quasi dimenticata Zaira di Vincenzo Bellini, opera che deve la sua notorietà esclusivamente per il motivo per cui è stata composta: l’inaugurazione del Teatro Ducale (ora Regio) di Parma, il 16 maggio 1829, voluto dalla duchessa Maria Luigia. L’opera, benché sia ricca di stupende melodie, trovò sin dall’inizio notevoli contrarietà. I parmigiani, all’epoca, nutrivano una venerazione particolare e assai viva per Rossini (Verdi sarebbe comparso sulla scena esattamente dieci anni dopo) e si rivolsero a lui perché scrivesse l’opera di inaugurazione, ma il compositore pose come condizione di poter lavorare senza muoversi da Parigi. Non potendo accettare tale clausola, contattarono Bellini, l’astro nascente del melodramma italiano. Per ritardi di vario genere il compositore catanese si ridusse all’ultimo mese per iniziare i lavori. Insieme al solito librettista Felice Romani, scelse l’argomento, liberamente tratto dalla tragedia Zaïre di Voltaire e iniziò la composizione solo un mese prima dell’inaugurazione. Già maldisposti verso Bellini, i parmigiani si irritarono ulteriormente per avere avuto un’opera composta in fretta e furia, tributando immeritatamente una fredda accoglienza a Zaira. Dopo l’insuccesso di Parma venne ripresa solo pochissime volte: a Firenze nel 1836, in occasione della morte di Bellini e poi solo due volte in tempi più recenti. Indubbiamente rimane una delle opere minori del musicista, anche se molte pagine di Zaira vennero riutilizzate da Bellini per altre opere ora più famose; infatti ascoltandola non si può non farsi venire in mente Norma, Capuleti e Montecchi e Puritani.
La vicenda ricorda la passione orientaleggiante per le trame operistiche fino alla prima metà del XIX secolo. Ambientata a Gerusalemme nell’harem del sultano, dove Zaira, prossima alle nozze con Orosmane, scopre di essere sorella del cavaliere francese Nerestano, giunto a riscattare i prigionieri cristiani e figlia del vecchio principe Lusignano, anch’egli tenuto come ostaggio, al quale promette di non tradire la fede cristiana. Rinvia perciò le nozze, tormentata dal conflitto tra amore e religione, cercando di trovare soluzione al suo dramma in un colloquio col fratello. Ma Orosmane la scopre e, sospettando in Nerestano un rivale, travolto dalla gelosia la pugnala; poi, resosi conto dell’errore, si uccide a sua volta, dopo aver concesso la libertà a tutti i cristiani.
Il Festival della Valle d’Itria, mettendo in scena Zaira ha chiuso idealmente un ciclo di opere del primo ottocento famose solo per i vari brani riutilizzati dai compositori in lavori più famosi (come l’Aureliano di Rossini dello scorso anno). Per questo allestimento ci si è avvalso della regia di Rosetta Cucchi, che già aveva lavorato per il Festival, allestendo nel 2010 la riuscita Rodelinda. Questa volta la Cucchi, puntando sul racconto parallelo, ha innescato un progetto di difficile comprensione e di non facile lettura: Zaira è al centro di un conflitto amore-dovere tra una cristiana e un musulmano come rappresentazione del passato e quello di una reporter del nostro tempo catturata da fondamentalisti islamici vittima della medesima sorte, la morte. La scena è rappresentata da una struttura lignea mobile su due piani di Tiziano Santi che nella parte inferiore serve da interno di una prigione mediorientale colma di reclusi oggetto di sopraffazioni e violenze d’ogni genere. Al piano superiore, formato da gradinate, si snodano le vicende tutt’altro che gioiose della protagonista. Le due vicende parallele ogni tanto si intrecciano, perché la prigione dei fondamentalisti diventa anche prigione del sultano. Il coro, molto importante in quest’opera, viene “relegato” sempre nella parte inferiore, chiuso in gabbie, dove però non vi è differenza tra il coro dei personaggi della corte e quello degli schiavi cristiani. Ne consegue una certa difficoltà, per il pubblico, di seguire il canto e le vicende dell’opera con la giusta concentrazione, distratto com’è da quanto avviene sulla scena parallela. Altra particolarità registica e musicale che ha disturbato è stato il finale tagliato della morte di Orosmane, indubbiamente mozzato senza nessun valido motivo.
Giovane il cast, con l’atteso debutto della giovane e giunonica Saioa Hernandez, nel ruolo del titolo; cantante di buona vocalità, bel colore e ottimo temperamento, purtroppo scarsa nella dizione. Bella voce calda ha dimostrato il basso Simone Alberghini in Orosmane, dall’ottima presenza scenica. Enea Scala, tenore contraltino, ha dato il meglio di sé, nonostante qualche difficoltà iniziale, nel ruolo di Corasmino. Brava Anna Malavasi nel ruolo en travesti di Nerestano; ottima voce Abramo Rosalen in Lusignano. Ricordiamo inoltre Michela Antenucci (Fatima), Valeri Turmanov (Meledor), Matteo Falcier (Castiglione).
Il giovane direttore Giacomo Sagripanti ha faticato non poco a dare unitarietà ad una partitura difficile e frammentata dal punto di vista drammaturgico, riuscendoci egregiamente, grazie anche all’ Orchestra Internazionale d'Italia. Molto bravo il Coro Lirico Terre Verdiane di Piacenza, diretto dal maestro Corrado Casati, al debutto a Martina Franca, dopo la decennale collaborazione con il Coro di Breslavia.
In un clima di prima nel Palazzo Ducale gremito, il pubblico ha ben applaudito i cantanti, ha riservato un’ovazione per il maestro Sagripanti e una vivace contestazione alla Cucchi.