Chi ha già visto i lavori di questi due avanguardisti del terzo millennio (ricordiamo tra gli altri “Aldo Morto” e “Digerseltz”) e ne ha apprezzato lo stile tagliente, scomodo, per niente incline a concessioni e confortevoli pietismi, non resterà deluso da quest'ultima loro fatica. Una drammaturgia irriverente che si nutre costantemente di paradossi, dialoghi rotti, spunti lanciati e rimessi alla riflessione del pubblico.
Elvira Frosini e Daniele Timpano tornano a barricarsi dentro un teatro (stavolta il Teatro dell'Elfo), valigia in mano e vestito del disagio. Insieme a loro qualche decina di spettatori. E' un luogo protetto il teatro, uno spazio di resistenza dove attendere l'arrivo di qualcosa, di qualcuno. Gli zombi sono alle porte e la “zombiudine” è una condizione esistenziale claustrofobica comune quanto quotidiana. Lo stato patologico incombe minaccioso: è intorno e infonde dentro ognuno, si fa spazio rendendo la vita non vita e la morte non morte. Lo zombi sono io che me ne vado in giro nascondendo la cera cadaverica e gli occhi sanguinanti dietro occhiali da sole e strati sottili di fondotinta. Zombi sei tu che mi leggi, gli zombi sono ovunque. E' epidemia. Così in scena, così nella sala dove il pubblico resta sotto i riflettori a rispondere alle insistenti domande degli attori. E' necessario che lo spettatore creda, e davanti a questo palcoscenico in cui tutto è horror e assurdo (ma mai troppo) gli scettici, i curiosi e gli indifferenti sono parte viva dell'ingranaggio e si sentono chiamati in ballo, trascinati sulla scena, resi protagonisti dai turbinii del loro stesso vuoto interiore. Il testo si destruttura e senza retorica si mette al servizio, servo, della disfatta dei nostri giorni. Siamo ancora una volta, con tanto lusso di situazioni psicologiche e mortifere, e con due semimorti (o semivivi?) in scena, a scandagliare nel solco di un' invasione di reietti. E' il disoccupato, l’immigrato che bussa alle porte di casa nostra, il consumista incallito, è uno di noi. Ma è anche, in sintesi, un mondo già morto che non vuole morire, paradigma eloquente nell’Italia di oggi e del suo clima politico e culturale. Lo Zombi è attuale ma non guasta ricordarne le radici antiche, quelle che affondano nel passato coloniale: ecco allora l'individuo privato di volontà che esegue lavori per il padrone, come gli schiavi nelle piantagioni. La zombitudine è il selfie della nostra fine o forse, visto che la fine è qui e quest'epoca è moribonda, decomposta, è un’immagine di speranza, l’unica forma di vita alternativa possibile. Una condizione germinale da cui potrebbe fiorire qualcosa di diverso, di migliore.
La coppia Frosini/Timpano, attori, autori, produttori della piéce conducono il loro lavoro sempre sul filo del rasoio con una narrazione che tende alla dispersione, alla estenuante destrutturazione, tra dialoghi brillanti impastati di nulla, aneddoti paradossali, profondità densissime ma insieme estremamente leggere sorrette da una interpretazione volutamente anti-recitativa che il pubblico premia con un lungo applauso.