Lorenzo Tognocchi

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Spettacoli

Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street
Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street

Contenuti redazionali

Mai rappresentato a Verona, “Il campiello” di Wolf-Ferrari è accolto con grande calore
Strano che un titolo squisitamente veneziano – e quindi di riflesso squisitamente veneto – qual è Il campiello di Ermanno Wolf-Ferrari, ispirato all'omonima commedia di Goldoni, mai fosse stato dato a Verona. Un'assenza cui rimedia la Fondazione Arena, che lo porta in scena al Teatro Filarmonico in una edizione nuova di zecca, affidata al talento teatrale di Federico Bertolani, ed alla bacchetta di un veneziano doc, Francesco Omassini.L'amore di Wolf-Ferrari per GoldoniNon amara come I quattro rusteghi, aliena dalla satira di costume de La vedova scaltra, Gli amanti sposi e Le donne curiose, ultima e però freschissima opera teatrale di Wolf-Ferrari, Il campiello è una sorta di testamento artistico dove confluiscono non solo l'amore per la città natale, ma anche quello per Goldoni ed il teatro musicale settecentesco, per Mozart e per il Verdi di Falstaff. Tutti elementi alla base di quest'opera corale, ironica e melanconica al tempo stesso, dove il declamato si fa tenera melodia scenica. Ambientata in un luogo – un campiello, cioè una tipica piazzetta veneziana brulicante di vita – che rievoca una Venezia fuori dello spazio e del tempo, immersa in un sogno nostalgico e gentile.Scenografia solo in apparenza tradizionaleSi apre il sipario, e la scenografia di Giulio Magnetto ci porta appunto nel campiello cui si affacciano le dimore dei nostri personaggi, e la locanda dove alloggia lo squattrinato Cavalier Astolfi. Sullo sfondo che s'apre di tanto in tanto, però, appaiono in controscena altre figure: Pantalone ed un gondoliere che accompagna Arlecchino e Colombina; poi lo stendardo della Serenissima, ammainato alla sua caduta; quindi un vaporetto ottocentesco che sbarca due fidanzati; a seguire un vorticar di ballerini, e sgangherati suonatori in barcone. Infine, dopo che il locandiere ha messo alle porte le tavolette antimarea, persino un tecnico che fa alzare le grandi barriere del Mose. Per finire, un turbine di moderni turisti sbarcati da una nave da crociera crea il coro conclusivo.Venezia di ieri, Venezia di oggiImmagini che stanno a significare il trascorrere del tempo, mentre l'anima della città rimane la stessa, intatta. Volesse il Cielo che fosse così... ma tra pizzerie e botteghe di basso valore, c'è poco da illudersi: la Venezia d'oggi è solo una folle kermesse turistica.I personaggi goldoniani indossano bei abiti settecenteschi, non si scappa; gli altri, li hanno secondo la loro epoca. Li ha disegnati con buon gusto Manuel Pedretti, mentre Claudio Schmid si è fatto carico delle luci. Quanto alla regia di Federico Bertolani, ci piace assai: procede veloce, aggraziata e vivace, cura bene tanto la recitazione singola quanto quella collettiva, culminante nelle inevitabili baruffe e nella festosa sbornia collettiva. In altre parole, asseconda al meglio il fluire del libretto del Ghisalberti, che a sua volta fa rivivere la smagliante prosa goldoniana.Direzione savia e calibrataFrancesco Omassini dirige con piacevole garbo e giusta levità l'Orchestra areniana, staccando tempi sempre giusti, accompagnando a dovere le voci, sottolineando bene la stupenda trasparenza strumentale della cristallina partitura. Difficile far di meglio. Si avverte un buon lavoro di concertazione della compagnia radunata, da lui portata ad un andamento collettivo vivace e spiritoso. Le vedove pruriginose Dona Cate Panciana e Dona Pasqua Polegana sono rese con irruente comicità da Leonoardo Cortellazzi e Saverio Fiore. Molto brio e civetteria nella Lucieta e nella Gnese di Sara Cortolezzis e Lara Lagni, rispettive figlie da maritare. La 'fritolera' Orsola è resa con spiccata vitalità da Paola Gardina.Una campione di personaggi venezianiIl riottoso Anzoleto ed il timido Zorzeto sono interpretati con perizia da Gabriele Sagona e Matteo Roma. Biagio Pizzuti rende bene il carattere dello spiantato Cavalier Astolfi, mentre Guido Loconsolo dà corpo all'insofferente Fabrizio. Resta Gasparina, cui spetta il compito di chiudere la rapidissima vicenda con il tenero commiato di Bondì Venezia cara. Bianca Tognocchi la canta benissimo, con indubbia dolcezza vocale; ma non rende del tutto il carattere da vanitosa ochetta che straparla e usa la “z” al posto della “s” con affettazione ridicola. Daniela Mazzucato, in questo, resta un esempio forse insuperabile. 
Sweeney Todd: non il solito musical
Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street , lo spettacolo diretto da Claudio Insegno e prodotto da Dimensione Eventi, è sicuramente una delle novità più attese della stagione teatrale 2019/2020
Sweeney Todd, il capolavoro dark di Stephen Sondheim, arriva a teatro
Il regista Claudio Insegno dirige la favola nera di Stephen Sondheim: “In realtà, Sweeney Todd è uno spettacolo che parla d’amore e di vendetta”. 
Viaggio in Italia: la nuova stagione autunnale della Fondazione Arena di Verona
Il Matrimonio segreto, L’Elisir d’amore, Madama Butterfly e quattro concerti sinfonici al Teatro Filarmonico dall’11 ottobre al 31 dicembre.
Flashdance: inseguire un sogno con determinazione
Uno spettacolo da vedere. Un allestimento dalla cifra stilistica completamente rinnovata, tutti gli interpreti, dimostrano di aver acquisito maggior consapevolezza, sviluppando interessanti sfumature interpretative.
Una rivisitazione fresca che non convince appieno
Non si rivela così semplice recensire uno spettacolo come Grease, nel suo tredicesimo anno di messa in scena da parte della Compagnia della Rancia, per la regia di Federico Bellone. Per chi poté assistervi, inevitabile l’istinto di cercare paragoni con l’edizione del 1997, la prima dello spettacolo, che la Compagnia della Rancia portò in scena prima al Teatro Nuovo di Milano e poi al Sistina di Roma. La regia era allora affidata a Saverio Marconi con protagonisti Giampiero Ingrassia e Lorella Cuccarini. Ma giudicare l’attuale edizione di “Grease” pensando ad allora non sarebbe giusto, né rispettoso nei confronti dei giovanissimi interpreti Mirko Ranù (Danny) e Serena Carradori (Sandy). Sono passati, in fondo, molti anni. L’attuale versione di Grease appare fresca, rivisitata con alcuni spunti innovativi, adatta ad un pubblico giovane, il pubblico prettamente adolescenziale. Alcune novità dell’adattamento si rivelano molto piacevoli, come l’esibizione di Teen Angel in Torna alla scuola, davvero ricca di ironia. Altre volte, alcuni tagli, pur necessari, deludono, come il sacrificio dell’assolo Piango di notte di Vince Fontaine, interamente cancellato dalla colonna sonora del musical. Nell’insieme qualcosa non va. Lo spettacolo non riesce a convincere appieno. La scenografia, ad esempio. Il “musical dei record”, giunto ben oltre la millesima replica (Teatro Olimpico di Roma 23 gennaio 2008) meriterebbe ben altre possibilità per i cambi di scena. D’altronde, però, portarlo in giro per l’Italia significa inevitabilmente dover ricorrere alla “ridotta”. E’ un peccato, ma non una colpa. I lati deboli sono altri. A cominciare dalla scelta degli interpreti. Se infatti Valentina Spalletta (Rizzo) rivela ottime doti di canto, recitazione e presenza scenica, tanto da meritarsi una menzione speciale, questo non può dirsi altrettanto per gli altri protagonisti principali, Danny, Sandy e Kenickie (Renato Tognocchi). Partiamo da quest’ultimo. Il personaggio, leader dei T-birds insieme a Danny, dovrebbe rivelare una certa prestanza fisica, ed invece, sorprende il suo fisico esile a confronto degli altri ragazzi. A penalizzarlo, inoltre, l’acconciatura e l'espressione del volto che nell’insieme appaiono eccessivamente finti, quasi a ricordare Zed, il robot di “Pronto Raffaella?”, più che un bullo tutto muscoli e carisma. Migliore il personaggio di Danny, ma anche in questo caso, Mirko Ranù ha un fisico troppo "normale", uguale a quello di tanti altri T-birds, occorrerebbe, se non altro, una maggiore statura, per sovrastare al meglio i compagni. In ultimo, Sandy. Grande voce, come per Ranù, Tognocchi e la Spalletta, ma anche qui non convincono appieno i lineamenti. Sandy dovrebbe spiccare per la sua bellezza, rivelare un qualcosa di più delle compagne, proprio perché protagonista. Con Serena Carradori questo non sembra accadere. Nell’insieme, forse, Federico Bellone si rivela regista troppo giovane per portare sulle spalle il “mito” di Grease (come “film cult” e come “musical dei record”). La recitazione appare troppo piatta, incapace di regalare vere emozioni, così come i momenti musicali che, seppure, ripeto, gli attori rivelino tutti di avere buone doti canore, avrebbero bisogno di una maggiore enfasi interpretativa. Ultima nota stonata, l’eccesso di volgarità. Movimenti, battute e coreografie, scadono spesso in momenti di volgarità gratuita, assolutamente non necessari. Basti pensare agli ammiccamenti di Rizzo in Guarda qui c’è Sandra Dee. Ci sono orecchi più sensibili e altri meno. Ma la volgarità stona sempre, quando si rivela gratuita, non giustificata dal contesto. E intristisce. Si ha infatti l’impressione che la nuova edizione di “Grease” ecceda in una volgarità ben lontana da quella del film, innocente al suo confronto, utilizzata in fondo come stratagemma per tenere il pubblico sulla corda. In un'epoca come quella attuale, in cui i giovanissimi si avvicinano allo spettacolo solo grazie ai reality e ai talent show televisivi, con tutte le loro falsità e invenzioni necessarie alla causa dell’auditel, perché non cogliere la meravigliosa occasione di uno spettacolo corale come "Grease" per dimostrare loro, al contrario, che ingredienti fondamentali del teatro sono il talento, lo studio, la professionalità che non conoscono scorciatoie?  
Fame… e qualcosa rimane
Da un consorzio di 11 produttori ci si aspetta qualcosa in più… Questa è l’impressione trasmessa “a caldo" dopo aver assistito alla nuova versione italiana del musical Fame – Saranno famosi (la prima nella nostra lingua risale al 2003, prodotta da Lorenzo Vitali), realizzata in occasione del 35 anni dall’uscita del film, con la produzione esecutiva adesso affidata a Wizard Productions srl e numerosi altri soci operanti nel settore dello spettacolo dal vivo, che partecipano al progetto attraverso varie quote di finanziamento. Motore artistico dell’intera operazione è nuovamente Federico Bellone, la cui regia, in questo caso, rivela una evidente trascuratezza che amplifica i “difetti” già esistenti della versione teatrale americana, creata da “Father Fame”, David De Silva. La vita di studenti e insegnanti della prestigiosa High School for Performing Arts di New York appare raccontata (quasi) totalmente priva di qualsiasi rapporto con l’esterno, come se la scuola fosse un ambiente protetto, una sorta di “grande famiglia”, dove passioni, paure, pregiudizi, dolori e dissapori vengono potenzialmente espressi, pur rimanendo in una dimensione circoscritta all’insegnamento e al desiderio di farcela inseguendo i propri sogni, che però sono “altro” rispetto alla realtà e alle caratteristiche di ognuno. Ecco perché, se non fosse per le canzoni, che in qualche modo aiutano a non perdere il filo degli eventi che coprono quattro anni di studio – dalle audizioni nel 1980 al diploma nel 1984 -  anche i personaggi risulterebbero ancora meno completi di quanto in effetti non sono: ognuno ha un proprio tratto caratterizzante, che però si esaurisce nel momento in cui termina una scena da interpretare o una canzone da cantare. L’elemento più dinamico e completo dello spettacolo sono le coreografie firmate da Gail Richardson. La scena di Hella Mombrini e Silvia Silvestri introduce a un clima intimo, scolastico e allo stesso tempo ricco di energia, ma pur apprezzando l’utilizzo calibrato di qualsiasi elemento utile sotto il profilo scenografico, la forma dello spettacolo risulta comunque “light”. Il regista Bellone conserva, anche in questo caso, un asso nella manica: un taxi giallo in scena, ma lo riserva al termine dello spettacolo (dopo i saluti), quasi come “bis”, sulle note della celebre Fame. Il cast italiano di questa edizione – ensemble e ruoli protagonisti – è stato selezionato grazie alla collaborazione con la SDM – La Scuola del Musical di Milano, che ha messo a disposizione della produzione alcuni dei suoi ex-allievi diplomati. Tra questi, Luca Giacomelli Ferrarini, reduce da significative esperienze in spettacoli come Next to Normal e Romeo e Giulietta – Ama e cambia il mondo, è un determinato Nick Piazza, un ruolo che non sembra però valorizzare il suo potenziale artistico, almeno dal punto di vista vocale; risulta invece piuttosto credibile nella recitazione. Molto apprezzato  Renato Tognocchi nel ruolo dell’irrefrenabile Joe Vegas; convincente nella recitazione e abile e spontaneo nel tenere il palcoscenico. Un discorso analogo, a livello interpretativo, vale per Roberto Tarsi, nel ruolo di Schlomo Metzenbaum. Rajabu Rashidi è un ottimo ballerino con uno stile indiscutibile, ma per il ruolo di Tyrone Jackson (nella serie Leroy Johnson, il “marchio di fabbrica” di Fame), questo non è abbastanza; esattamente come il personaggio che interpreta, gli sarebbe di giovamento un più approfondito impegno nella danza e nella recitazione (che, per il momento, colpisce solo per l’elevato numero di parolacce che pronuncia). A onor del vero, va detto che nell’esecuzione insieme a Marta Melchiorre (Iris Kelly) del passo a due nel secondo atto, ha dimostrato una grazia inaspettata e fuori dal comune. Michelle Perera nei panni di Mabel Whashington è l’autentica rivelazione di questa edizione di Fame: una voce piena e controllata, capace di un virtuosismo finora raramente riscontrato in tessiture vocali analoghe. L’interpretazione del brano in cui descrive il suo rapporto con il cibo ha strappato applausi fragorosi e sbalorditi, ma anche una standing ovation sarebbe stata più che appropriata. I quattro ruoli adulti (gli insegnanti della scuola) non sono da meno, pur essendo, anch’essi, non completamente definiti: Donato Altomare e gipeto sono convincenti professori di recitazione e musica. Francesca Taverni (una integerrima Ms. Sherman) e Simona Samarelli (Ms. Bell, insegnante di danza, precisa, ma fuori dalle convenzioni didattiche) superano loro stesse nel duetto riguardante il destino di Tyrone e del suo potenziale talento. Un ensemble di talenti che emanano ritmo ed energia restituiscono al pubblico l’immagine più appropriata (la determinazione e la voglia di farcela), di uno spettacolo che però potrebbe essere molto di più di uno spaccato  di sogni e aspirazioni di aspiranti artisti completi.
Footloose, così è... se vi pare
Footloose, la nuova produzione firmata Stage Entertainment, che riprende a produrre spettacoli in Italia dopo alcune stagioni, puntando su un titolo “sicuro”,  realizzato – come musical – successivamente alla pellicola degli anni Ottanta, che ha lanciato un allora esordiente Kevin Bacon. Il musical è ambientato a Bomont, un piccolo paese della provincia americana. Qui predica un pastore protestante, che ha bandito la musica rock, il ballo ed alcuni tipi di letture perché responsabili, secondo lui, della corruzione morale dei giovani della comunità. La vera ragione di tale accanimento risale a pochi anni prima, quando alcuni ragazzi, tra cui il figlio del pastore, hanno perso la vita in un incidente stradale, mentre rientravano da un concerto. Dal film al musical: le scelte nell'adattamento Va precisato che Footloose non nasce come musical e l’adattamento per il palcoscenico realizzato dallo sceneggiatore della pellicola originale, Dean Pitchford, insieme a Walter Bobbie, pur mantenendo pressoché inalterati personaggi e situazioni, risulta profondamente diverso rispetto al film, anche solo per il fatto di contenere più canzoni – coinvolgenti e di facile ascolto – che seguitano, però, a “fare da colonna sonora”, senza necessariamente essere funzionali a ciò che viene raccontato sul palcoscenico. In questo senso, il lavoro di traduzione e adattamento del testo e delle liriche in italiano, compiuto da Franco Travaglio, è risultato impegnativo, ma ha dato i suoi frutti, talvolta davvero spassosi; come nel caso della canzone La mamma dice…, in cui il rozzo e ingenuo Willard espone all’irrefrenabile Ren la propria filosofia di vita, basata sui consigli dispensati dalla propria madre: un inconfondibile e indimenticabile "biglietto da visita". Apprezzabile, ma con qualche riserva, la scelta di mantenere in parte in lingua originale le hit più conosciute del film (Footloose, Holding Out for a Hero). Un cast all'altezza delle aspettatve Chiara Noschese, in qualità di responsabile casting e supervisore artistico, ha radunato per questo spettacolo un nutrito cast di professionisti – giovani e adulti – impegnati a dare il meglio. E l’obiettivo non è lontano dall’essere raggiunto, ma forse è ancora troppo presto per affermarlo con certezza. Riccardo Sinisi, al suo primo ruolo da protagonista, si dimostra all’altezza delle aspettative generali. Il suo Ren McCormack è forse leggermente più “sportivo” rispetto all’omologo cinematografico, ma dona al suo personaggio una determinata vitalità derivante dalla delusione e dalla conseguente voglia di lottare per affermarsi come individuo. Smessi i panni delle varie Cenerentola e Sandy, Beatrice Baldaccini interpreta Ariel, la figlia del pastore, rivelando al pubblico aspetti interpretativi inediti: un anelito di ribellione all’autorità e alle convenzioni di genere, sempre conservando quel pizzico di candore, che anche in questo contesto, non guasta. Per Antonello Angiolillo interpretare uomini in crisi con la moglie e in difficoltà con i figli è ormai quella che si dice “una passeggiata di salute”. Il suo Reverendo Moore, uomo in crisi, attanagliato dal dolore per la perdita di un figlio, si aggrappa a Dio, senza cercarlo nelle altre persone, rischiando così di perdere gli affetti a lui rimasti. Quello che fa, lo fa bene: Renato Tognocchi si fa nuovamente notare  - a pochi mesi dall’esperienza nel musical Fame - nel ruolo di Chuck Cranston, il ragazzo che nessun padre vorrebbe vedere accanto alla propria figlia. Giulia Fabbri, nel ruolo di Rusty, sfoggia molta di quella grinta che aveva abbastanza trattenuto interpretando la giovane giornalista di Newsies; suo il compito di affrontare – interamente in inglese – una hit memorabile come Let’s Hear it for the Boy. Giulio Benvenuti interpreta un convincente, anche se – a tratti – troppo “caricato” Willard Hewitt, il personaggio che è un po’ la “mascotte “ dello spettacolo.  Scene, costumi e luci denotano un certo standard qualitativo, non nuovo per le produzioni targate Stage Entertainment, ma sensibilmente distante dal suo debutto in Italia, con La Bella e la Bestia.  
Via dei Teatri numero cinque
Parte da Cremona, per iniziare poi il tour che gli consentirà di toccare tutti i palcoscenici dei teatri di OperaLombardia, l’allestimento de La scala di seta firmato Damiano Michieletto, creato dal regista per il Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2009 e riproposto dal Teatro alla Scala nel 2013. Uno specchio sul fondo inclinato di 45° sul modello di quello proposto da Svoboda per la sua Traviata, sul palco il disegno del progetto di un appartamento (poi arredato durante l’ouverture da una serie di operai capitanati da un forsennato architetto), un’ambientazione a noi contemporanea con tanto di mobili di ottima fattura, muri e porte fittizie che gli interpreti fingono di rispettare, ecco gli ingredienti essenziali di un allestimento frizzante, curato nel dettaglio, la cui attenzione per la diversa psicologia dei personaggi fa divertire il pubblico e non consente momenti morti o di stasi. I protagonisti, portati in scena su carrelli e inizialmente immobili come statue, si muovono e destreggiano poi con scioltezza fra i vari ambienti della casa, costituiti da un’ambia zona giorno, munita di cucina, tavolo e divano, da una stanza da letto dotata di bagno e da un ripostiglio, vani tutti ampiamente utilizzati per ben mettere in opera quel continuo inseguirsi e nascondersi richiesto dal libretto. L’indirizzo dell’appartamento? Semplice, è scritto in calce alla pianta: via dei Teatri, n. 5. Francesco Omassini, alla direzione dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, stacca tempi piuttosto dilatati e dà una lettura lineare e molto composta della partitura cercando sempre di buttare un occhio attento al palcoscenico. Bianca Tognocchi è una Giulia corretta e briosa, la voce, certo, è dotata di un volume non troppo corposo che talvolta stenta a sovrastare l’orchestra, ma il timbro è fresco, il fraseggio curato, il suono ben in maschera. Laura Verrecchia tratteggia una Lucilla che da segretaria algida e impettita presto si trasforma in tigre scarmigliata e sopraffatta dai sensi: lo strumento, dal retrogusto brunito, è di tutto rispetto e l’acuto s’innalza risoluto. Sul versante maschile spicca Leonardo Galeazzi nei panni di un Blansac ottimamente caratterizzato: la linea di canto è sicura e senza sbavature, il suono rotondo e ben timbrato, il fraseggio pertinente, l’emissione naturalmente sonora. Voce chiara e non enorme per il Dorval di Francesco Brito che evidenzia comunque una solida padrona del registro acuto e accenti appropriati che gli consentono di tratteggiare una figura di innamorato più che apprezzabile. Qualche lentezza nell’esecuzione delle agilità, ma strumento dal colore davvero gradevole per Filippo Fontana che interpreta con misurata comicità un Germano in versione cameriere filippino. Al loro fianco il buon Dormont di Manuel Pierattelli.
Grigolo mattatore
Dopo la prima andata in scena tra i terminal della Malpensa, operazione mediatica non nuova al Sovrintendente Pereira che già qualche anno fa aveva portato la Traviata tra i binari della stazione di Zurigo, L'elisir d’amore torna nella sua sede abituale nell’allestimento scenico ideato anni fa per la Scala da Tullio Pericoli (anche creatore dei costumi) con la regia ora ripresa da Grischa Asagaroff. L’impianto scenico ha tratti grafici e naif che ben si addicono all’opera giocosa e vede un’infilata di quinte arboree dalla bidimensionalità volutamente accentuata che incorniciano un fondale dipinto nei toni pastello che raffigura, riprendendo lo stile dei libri illustrati per bambini d’antan, un paesaggio collinare, una natura morta giocosa come un albero della cuccagna, una chiesetta di campagna su di un cucuzzolo. Già visto, ma funziona sempre, l’armadio - tabernacolo che avanza sulla scena per aprirsi e svelare il mondo di fantasia colorata e surreale del medico ciarlatano accompagnato da un trombettiere e da un buffo servo muto in calzamaglia che regge il gioco e suggerisce le battute. Se pur non ci siano elementi di novità, l’impatto visivo è gradevole e le luci calde di Hans-Rudolf Kunz contribuiscono a conferire la giusta atmosfera estiva. I fantasiosi costumi dello stesso Pericoli (copricapi da Puffi, maniche esageratamente a sbuffo, un tripudio di pois, calzature multicolor) esaltano la comicità fumettistica dei personaggi e le masse in abiti pastello dai colori sfumati e dégradé diventano parte integrante del paesaggio. Debole la regia che si affida principalmente al talento istintivo dei protagonisti (Grigolo in primis), ma che non sfrutta  la verve e il ritmo insiti nel plot di cui dà una lettura riduttiva con un movimento scenico datato non privo di inutili gesti, mossette e passi dell’oca, e la cui unica trovata si riduce al cinghiale che attraversa due volte la scena. Uno spettacolo di repertorio che diventa però un evento per il Nemorino di Vittorio Grigolo, ideale da tutti i punti di vista ma soprattutto – ed è una piacevole sorpresa – a partire dalla cura del canto. La voce estesa e baciata da un timbro solare (come non pensare a Pavarotti nel ruolo) è sempre trascinante e ricca di comunicativa ma, gestita con maggior consapevolezza d’interprete, si piega alla sfumatura, si assottiglia per trovare accenti raccolti in sintonia con la nota patetica del contadino innamorato, senza però che vengano meno simpatia e passione. Il canto variegato e ricco di senso (a partire dalla cavatina iniziale e per tutta la durata dell’opera) rende il personaggio interessante e “nuovo” (Nemorino è molto  più di “una furtiva lacrima”, peraltro  qui ben cantata) e solo a tratti emerge l’esuberanza guascone un po’ sopra le righe del cantante toscano, ma nel ruolo ci può stare, anzi aiuta non poco. Se Grigolo “è” dunque Nemorino, Eleonora Buratto “non è ancora” Adina. Per quanto la giovane e promettente cantante sia dotata di una voce lirica piena dal registro centrale particolarmente sontuoso, non trova giusta varietà e leggerezza e il personaggio, peraltro non valorizzato dalla regia, risulta monocorde e privo di quel mix di civetteria, sensualità e arguzia che lo rendono irresistibile. Di Michele Pertusi, nonostante la voce abbia perso un po’ di smalto negli anni (la cavatina d’ingresso vorrebbe maggiore peso specifico), non si possono che lodare stile, musicalità e dizione, tutte doti fondamentali per il sillabare (e sibilare) di Dulcamara: il suo ciarlatano non è debordante ma pieno di spirito e piace perché è personaggio e non macchietta. Mattia Olivieri è decisamente giovane e forse anche per questo il suo Belcore non è completamente risolto, come rivelano all’inizio i problemi d’intonazione e una certa genericità interpretativa; la materia vocale è però interessante e la prova è stata in crescendo. Una piacevole scoperta la brillante Giannetta di Bianca Tognocchi e un plauso al servo muto di Dulcamara interpretato da Jan Pezzali che con mimica  surreale ha regalato al pubblico divertenti controscene. Con gesto elegante e preciso Fabio Luisi tiene in pugno orchestra e cantanti infondendo giusta disciplina anche al tenore più estemporaneo. Della  direzione musicale ci è piaciuta la capacità di sfumare, alleggerire, chiaroscurare, favorendo le ragioni del canto, ma si sono avvertiti - complici tempi piuttosto lenti -  limiti nella narrazione teatrale e nei duetti dove avremmo voluto maggior brio e tensione dinamica. Decisamente buona la prova dell’orchestra, precisa in tutte le sezioni. Bene anche il coro preparato da Bruno Casoni. Teatro pieno, applausi per tutti e punte di entusiasmo per il tenore, mattatore della serata. Ma quanti telefonini accesi in sala durante la rappresentazione!
ITALIAN OPERA ACADEMY GALA - Ravenna Festival 2015
Muti trasmette la propria esperienza artistica e musicale alle nuove leve della direzione d'orchestra, nell'ambito della prima edizione della sua Italian Opera Academy