Il tenore nato a Portofino, grande protagonista internazionale della lirica, si racconta a Teatro.it ripercorrendo la carriera e proponendo soluzioni per rilanciare il settore.
Alberto Cupido è un numero uno della lirica internazionale: uno dei maggiori tenori della sua generazione, a livello mondiale. Basta dare un’occhiata al curriculum del tenore nato a Portofino.
Cupido ha lavorato con direttori d’orchestra come Riccardo Muti, Claudio Abbado, Zubin Metha, Wolfgang Sawallisch, Giuseppe Sinopoli, Gianandrea Gavazzeni, Georges Prêtre. Ed ha cantato nei più importanti teatri del mondo, dal Covent Garden, all’Opéra Bastille, dal teatro alla Scala alla Staatsoper di Vienna e all’Opéra di Parigi.
Oggi racconta a Teatro.it la sua vita artistica, con qualche incursione sul privato.
Che tenore è Alberto Cupido?
Eclettico, sicuramente. Ho sempre fatto molto affidamento sul fatto tecnico: per questo credo che la mia voce sia durata così a lungo: anche oggi sono ancora in grado di cantare quasi tutto. Sono sempre stato innamorato della vocalità, per avere un buon legato: che è la cosa più importante per un cantante. Come attore invece sono migliorato nel tempo, all'inizio ero un po’ freddino.
Vogliamo spiegare cos'è il legato?
E’ la caratteristica principale del canto lirico. Il legato nell'emissione è una questione di estetica musicale, ma è soprattutto un mezzo tecnico che serve a produrre un suono ricco di armonici: ciò che conferisce al canto lirico l’adeguata pienezza sonora. Se c’è il legato, è la prova che quello che stai cantando lo stai cantando bene. La mancanza del legato invece dimostra che l’uso del fiato non è corretto, che non stai usando il diaframma in modo giusto.
Si può raggiungere un adeguato legato nell’emissione solo se si è capaci di utilizzare l’apnea per produrre il suono. Si prende il fiato rigorosamente dalla bocca: in questo modo si predispone già la gola bene aperta, e in seguito si emette il suono con un gentile e nobile ma risoluto e netto colpo di glottide. Non significa fare una cosa violenta ma emettere il suono senza trascinare, in modo pulito.
Qual è il teatro che preferisce, nel mondo?
Se hai fatto una cosa bella in un posto, ti rimane un buon ricordo di quel posto. E viceversa. In Italia amo la Scala, Roma, Trieste e Genova. Nei teatri tedeschi vado sempre volentieri. In Germania il pubblico va all’opera con l’atteggiamento giusto.
In che senso?
Diciamo che qui da noi la gente a volte va all'opera con un certo snobismo. Per i popoli di lingua tedesca, invece, l’opera è un fatto culturale normale: il loro percorso culturale passa anche attraverso l’opera. Infatti i teatri sono sempre pieni.
Un aneddoto che riguarda Alberto Cupido racconta che un giorno al Regio di Parma c’era l’Aida. Gennaio 2000. Dopo i primi due atti Radames, il capo delle guardie, si sente male e non può proseguire. Davanti alla prospettiva di rimandare tutti a casa, il direttore si affaccia al palcoscenico e chiede se in sala c’è per caso un tenore in grado di sostituire il malato. Cupido alza la mano e va a cantare: e dato che non aveva mai interpretato prima Radames, il tenore genovese deve cantare leggendo la parte.
"Non è andata proprio così - puntualizza Cupido - ma è stato divertente lo stesso. Io ero al Regio a vedere l’Aida, che avrei dovuto interpretare due giorni dopo a Forlì. Vado dietro le quinte a vedere che succede. Il maestro Paolo Olmi mi dice: se non canti tu, non vado avanti. Io avevo provato la parte solo da due giorni, ma non l’avevo mai interpretata né cantata con l’orchestra."
Quale aria preferisce?
Che gelida manina, nella Boheme, e in generale tutte le arie pucciniane. Puccini è probabilmente il mio autore preferito. Poi tutto il repertorio francese. In carriera ne ho fatte 12: la Manon di Massenet, Carmen, Berlioz con Romeo et Juliette e La damnation de Faust, e altre ancora.
Che personaggio ama di più, tra tutti quelli che ha interpretato?
Diciamo che si va per età, non per gusti. All'inizio piacciono i ruoli lirici, come la Boheme. Poi ti sviluppi, cresci, cambiano anche la fisionomia, lo spirito: e salti alla Tosca. Verdi amava i baritoni: per i tenori è difficile, anche se ne ho fatti 14.
Di Verdi mi piacciono i titoli meno consueti: I due Foscari, La battaglia di Legnano, Stiffelio. Ma ho fatto anche Traviata, Trovatore, Aida, Rigoletto. Invece i Donizetti sono fantastici per la vocalità tenorile: le sue opere sono quelle che si addicono di più alle mie caratteristiche vocali.
Ne esce il ritratto di un cantante molto eclettico
Mi piace cambiare. E’ vero che la condizione per fare bene è fare tante volte la stessa cosa: ma è noiosissimo, e io sono un irrequieto. E’ interessante accostarsi a un personaggio nuovo, studiare. Bisogna saper cambiare, altrimenti il rischio è quello di inaridirsi.
Una volta ha detto che l’opera più difficile è I vespri siciliani. E’ ancora vero?
Sì. E’ una tessitura acutissima, una cosa che ti spacca la gola. Pensavo di avere già visto tutto: ma quando l’ho interpretata ho capito che non era vero. I Vespri mette a durissima prova le tue risorse tecniche. E’ un’opera che dovrebbe essere messa in scena in francese, che è la lingua in cui è nata. In italiano è tradotta male. Ultimamente la fanno tenori che vengono dal belcanto.
Ha lavorato con molti registi. Chi le ha lasciato ricordi migliori?
Liliana Cavani, Piero Faggioni, Franco Zeffirelli, Jean Pierre Ponnelle. Hans Neugebauer mi ha insegnato molto, aveva un gran talento per il lavoro sull'attore. La Cavani è terribile, non ama le gestualità ampollose, i gesti inutili. Se fai una mossa ti ferma e ti chiede: ha un significato particolare che non so quel gesto che hai fatto? No? Allora non farlo.
E i direttori?
Non farò nomi nemmeno sotto tortura, sono molto suscettibili. Diciamo che ho ottenuto i risultati migliori con direttori che ti stanno poco addosso, quelli che ti dicono: fammi vedere cosa sai fare. Il direttore deve lasciarti libertà espressiva.
Quali sono le doti migliori di un tenore?
La musicalità, il senso del teatro: che non tutti hanno. E poi quello che ti da il buon Dio: la voce. Ma il tuo merito sta nel migliorarla e conservarla.
Qualche collega che stima e che vorrebbe citare?
Sono troppi e non voglio fare torto a nessuno. Ma posso dire che ho avuto l’onore di cantare con Mirella Freni, Joan Sutherland, Leonie Rysanek, Renato Bruson, Piero Cappuccilli, Fiorenza Cossotto.
Ma alla fine, tra tutti i titoli di cui abbiamo parlato finora, c’è un’opera preferita?
Sì, quella che non ho mai fatto. Se una cosa l’hai fatta per bene, se hai raggiunto o quasi la perfezione, sarebbe meglio non rifarla più. Avrei voluto fare l’Otello, come tutti i tenori. Avevo iniziato a studiare. Ma invecchiando la voce si scurisce un po’, oltre a non avere la fisionomia giusta.
Perché canta? Cosa prova nel cantare?
Compiacimento, c’è una componente molto narcisistica. Chi dice che il cantante non è narcisista, mente. E poi è una cosa di famiglia: cantava anche mio papà Domenico, che in paese tutti conoscevano come Mingo. Aveva cantato opere importanti a Genova, prima che la guerra lo costringesse a prendere altre strade. Ho ereditato il Dna del cantante da lui.
Lei è un artista molto legato alla Liguria, alla sua terra di origine. Come ha fatto a mantenere questo legame pur essendo un artista di fama internazionale?
Essere nato a Portofino aiuta: si sa che è considerato uno dei paesi più belli del mondo. Gli amici con cui sono cresciuto sono qui. Ho abitato a lungo a Milano, una città che mi ha dato tanto: artisticamente sono figlio di Milano, tra conservatorio e scuola della Scala. Ma 25 anni fa sono tornato nel golfo del Tigullio con mia moglie, il soprano giapponese Akiko Kuroda, e ho preso una casa a Rapallo. Dieci anni fa ho lasciato Milano.
Se non avesse fatto il cantante?
Da piccolo volevo fare lo sfascia-carrozze. Da adulto mi sarebbe piaciuto fare l’architetto urbanista, se avessi avuto il talento giusto
Quando ha capito cosa voleva fare da grande, e quando ha capito che c’era riuscito?
Non c’è un momento preciso, ma verso i 18 anni capii che valeva la pena tentare. La svolta arrivò con la decisione di andare a Milano nel 1971, quando ero già adulto. Franco Corelli aveva debuttato a 30 anni. Ho pensato: se lo ha fatto lui, posso farlo anch'io.
Dovessi iniziare adesso, lo farei però con uno spirito diverso: quando ho cominciato avevo un approccio un po’ guascone. Da giovane ti diverti e vai in giro per il mondo. Oggi inizierei in modo più mirato. Anche allora ero studioso e preciso, ma oggi mi dedicherei ancora con più impegno allo studio dei personaggi.
La persona cui deve di più?
Mia moglie Akiko. Con lei c’è un sodalizio molto riuscito: non solo sentimentale, anche artistico. Un artista da solo non va da nessuna parte: c’è bisogno di una persona vicina che ti aiuta, ti consiglia, ti sprona, ti critica. Con Akiko studiamo insieme, e se mi deve fare una critica me la fa senza pietà. Con lei programmiamo gli spartiti, facciamo la prima sgrossatura, correggiamo il tiro: per mettere in gola 60 opere, hai bisogno di aiuto. Beniamino Gigli ne ha fatte 58, altri tenori si fermano a 25
Dotato di un luminoso timbro vocale e di una particolare flessibilità tecnica; il modello è Beniamino Gigli. Si riconosce in questa descrizione?
Si, mi sono sempre ispirato a questo tipo di vocalità. Franco Corelli mi ha aperto un mondo nuovo.
Ultimamente si sta dedicando molto ai giovani
Lavoriamo soprattutto con giapponesi e romeni, con ottimi risultati. Credo che per i giovani italiani quello dell’Opera sia un modello culturale che si sta un po’ allontanando. L’Opera viene vista come un momento che appartiene al passato, e comunque elitario: invece si dovrebbe recuperarlo, favorirne la conoscenza. Dobbiamo abbassare i prezzi dei biglietti per riempire i teatri, andare incontro al pubblico.