La crescita come scoperta di sé. La rivelazione di sé attraverso la scoperta del sesso e della propria omosessualità. «Invece di crescere e divenire solido», però, «l'io si disperde, si sparge, decresce, torna all'origine, fino all'utero materno». Queste le dinamiche narrative alla base della drammaturgia di Adulto, curata da Francesca Marianna Consonni, saldamente zavorrata a brani estratti da Petrolio di Pasolini, Aracoeli di Elsa Morante e Testamento di sangue di Dario Bellezza.
La sfida è ardua: teatralizzare una parola letteraria, vorticosa, satura il cui destino originario non è certo quello della sua messa in scena, evitando di diluirla in un italiano d’uso medio, preservandone e amplificandone – anzi – iperbole e ricchezza espressive. In un momento storico in cui il teatro non può che proporre sfide, o almeno dovrebbe, Phoebe Zeitgeist lanciano il loro guanto allo spettatore con fideistica convinzione.
Il montaggio dei testi non viene presentato nei termini di un assolo mattatoriale, bensì come una composizione in tre movimenti durante la quale tre distinti personaggi prendono vita, orchestrati da un meta-narratore che governa la scena, anche tecnicamente. In scena, l’unico interprete Dario Muratore a incarnare i continui slittamenti tra questi due piani recitativi – e di conseguenza a dar corpo e voce a tutti i personaggi – e al tempo stesso gestire le risorse sul palco accendendo e spegnando all’occorrenza luci al neon, azionando registratori, spostando oggetti, quasi che lo spettacolo a cui assistiamo sia il “personale” teatro di questo io-teatrante. Tragico e grottesco è il confine – di fassbinderiana eco – sul quale è imperniato il registro performativo sullo sfondo un’italietta borghesuccia anni settanta, “ridotta” a tre file di led colorate in verde, bianco e rosso che delimitano (più o meno) l’azione. I personaggi si impossessano compulsivamente dei pochi metri quadri a disposizione, vomitando un vissuto ontologicamente degradante, lanciandosi carponi, producendosi in gemiti dolenti, spasmi, disegnando mimiche estatiche, portandosi il gel ai capelli come se fosse un lubrificante, spingendo in maniera prima incerta, poi decisa gli interruttori di un vecchio registratore a cassette.
Sul piano squisitamente spettacolare la regia di Giuseppe Isgrò è il risultato di un approccio che mira all’essenzialità, esprimendo un lavoro di cesellatura e pulizia formale tanto sulla scena, quantosul corpo attorico, lasciando al contempo intravedere a tratti una programmatica e consapevole tendenza a sbavature e alonature. Pochi e distintivi sono infatti i “segni” in questa sorta di piccolo “cantiere” allestito allo Start: piccoli cumuli di terra quasi chirurgicamente sistemati, secchiello, paletta, rastrello e un cavalluccio a ruote bianchi, ma sporchi, imbrattati, sudici. Metafore di una dimensione infantile incolpevolmente svuotata da purezza e innocenza.