Una Lezione di teatro con la L maiuscola, signori miei. Quello che è riuscito a fare Corrado D’Elia è qualcosa che va al di là anche dell’inaspettato. Inaspettato, perché ormai, dopo centinaia di allestimenti in tutte le salse, non sai più nemmeno se e cosa aspettarti di nuovo. Eppure D’Elia c’è riuscito. Nel suo teatro da 150 posti sui Navigli, il Teatro Libero, libero di nome e d’intenti, libero anche di volare e di portare un risultato straordinario come questo.
Una stanza vuota, con piastrelle grigio-bianche a cubi. Apparentemente senza via d’uscita. Come in un fotogramma cinematografico, cala il buio pesto, s’alza la musica hard rock e inizia la pellicola della memoria. Orazio ne attiva il metaforico rewind, raccontando frammenti di storia. Flash di ricordi, sì, ma sempre legati dal doppio filo logico e cronologico. Appaiono e scompaiono i personaggi, velocissimi e puntuali. Sembra magia, ma è perfezione di tempi teatrali. Non si capisce da dove sbuchino:invisibili porte girevoli o carrucole risucchianti dall’alto? Niente di tutto ciò. Una scenografia inesistente eppur complessa che si svela nel celebre “essere o non essere”: l’unico momento in cui le porte si aprono, dischiuso simbolo del libero arbitrio. Luci rosso sangue quando nell’aria c’è morte e vendetta, gestualità evocativa da trattenere il respiro, affiatamento scenico eccellente.
I protagonisti.
Claudio (Gianlorenzo Brambilla), aria da parvenu, illetterato commendatore dall’orologio d’oro, ostenta la sua usurpata posizione con una presenza in scena pressoché fissa; passa i 100 minuti avvinghiato lascivamente a Gertrude, la quale spesso lo corregge nel suo confuso e scorretto eloquio.
Ofelia (Elisa Pella), meravigliosa ninfa, vive e muore con eleganza e grazia. Splendida la scena in cui Laerte cerca di sottrarla alla morte. Splendida lei. Da tenere d'occhio.
Rosencrantz e Guildenstern hanno un ruolo preminente, sia da vivi che da morti. Volutamente molto diversi dal punto di vista fisico, paradossalmente sono comunque sempre confondibili e interscambiabili, tanto che loro stessi non si riconoscono più. Vuoti e meschini sì, ma con un tratto di simpatia e di comunicatività in più.
E poi lui, Amleto. Seppur in jeans, è rigorosamente “dressed in black”. Un Corrado D’Elia ispiratissimo, senza nessuna sbavatura, lo porta all’apogeo.
Un Amleto in 100 minuti, senza scenografie, senza attrezzi di scena, senza ingombranti costumoni d’epoca, ma comunque estremamente completo e intenso. Un allestimento dalle intuizioni formidabili, dipanato con intelligenza, competenza e cuore, sintetico ma mai superficiale. Contemporaneo eppure incredibilmente “shakesperiano”: non si butta via nulla, anzi, si guadagna. Sicuramente il migliore degli ultimi due lustri. Capolavoro. Il resto è silenzio.
Milano,
Teatro Libero,
2 dicembre 2006
Visto il
al
Giuditta Pasta
di Saronno
(VA)