Nonostante la coscienza di una nazione che annega nei propri errori e boicotta necessità vitali di un popolo quali salute, istruzione e cultura, grazie a cui scuole, ospedali e teatri sono sul baratro, capita sempre più spesso di assistere, come per una spinta contraria, alla moltiplicazione di associazioni e compagnie che tirano avanti, ingegnandosi in mille modi. A Roma non fa troppa sorpresa la costituzione, in alcuni casi la ristrutturazione di teatri e sale parrocchiali: in questa ‘nuova’ realtà va citato il caso del teatro De Rossi (quartiere Appio-Latino), una bella sala adiacente all’omonima chiesa di S. Giovanni Battista De Rossi, che, lontana dalle stagioni ufficiali, si è costruita pian piano un cartellone di tutto rispetto nella commedia e negli spettacoli di quartiere, in attesa – ce lo auguriamo – di poter figurare nei circuiti del teatro off della capitale.
Per l’apertura di quest’anno il teatro si è affidato a uno spettacolo di repertorio, già proposto in passato, affidato alla regia di Barbara Porta. “Dedicato agli ultimi” racconta in una cornice poliedrica di narrazione, ballo e canto l’avventura terrena del santo Giovanni Battista De Rossi, sacerdote genovese naturalizzato romano del XVIII secolo, dedito alle fasce più umili e povere per cui fondò istituzioni ed ospizi. Intorno alla figura umile, ma potente nella fede, si riunisce una compagnia numerosissima, composta da più di quaranta elementi, tra attori (grandi ed adolescenti), ballerini, cantanti e tecnici, che ci sembra rappresentativa della forza di aggregazione che il santo seppe sempre ricreare intorno a sé.
La via scelta dalla regista per non cadere in una mera rappresentazione agiografica è stata oltre modo rischiosa, non scevra di momenti interessanti, ma non sempre padrona del campo: si uniscono in momenti di parola, ma più ancora di canto e coreografia, gli episodi più salienti legati alla vita di De Rossi – dalle umili origini alla partenza con una famiglia ‘acquisita’ per avere la possibilità di studiare a Roma, dal collegio dove per prime si manifestarono le sue doti di dolcezza e carità ai primi incarichi sacerdotali, allo “scandalo” della dedizione per gli emarginati e i diseredati, fino alla straordinaria abilità nel confessionale e alle umane fragilità (De Rossi morì prematuramente di epilessia, una malattia che lo accompagnò e tormentò per tutto il suo percorso terreno n.d.r.).
L’aspetto più intrigante è stato il racconto a ritroso, dove il palcoscenico si apre sugli ultimi momenti di vita del sacerdote, assistito dai fratelli correligionari; sulla soglia per uscire da questo mondo il santo si guarda indietro ed è solo in quel momento che la narrazione prende il suo corso ordinario, scandendo i primi anni di studio del giovane Giovanni Battista. E’ una scelta che aumenta il fascino e soprattutto il valore delle scene che seguiranno, impostate come abbiamo detto, sui momenti più importanti e – teatralmente parlando – interessanti di questa storia, che trova anche il modo di gettare uno sguardo curioso e attento ad alcuni aspetti della società e dei costumi della Roma papalina, nettamente spaccata in due tra abbienti e indigenti.
Tuttavia, come la vita del santo, la rappresentazione e la resa al pubblico sembrano muoversi per antinomie, non sempre conciliabili: c’è un’incredibile ricchezza umana e scenica, che permette alla regista di spaziare tra molteplici stili narrativi e proporre aspetti anche miserevoli con colori e coreografie. Molto spesso però questa si rivela un’arma a doppio taglio, in quanto appare difficile governare una tale massa di attori e cantanti, che spesso non dispongono di sufficiente preparazione tecnica e artistica in un campo o nell’altro, e non sempre le scelte musicali e coreografiche appaiono pertinenti alla narrazione: stride non poco la narrazione dell’Epilessia letteralmente danzata dalla cantante Annalisa Favetti, che si propone in vesti più adatte a un musical che a una rappresentazione teatrale. Se dunque abbiamo momenti veramente piacevoli e coinvolgenti (il ballo sarcastico dei poveri intorno a un De Rossi alla sua prima scesa nella corte dei miracoli romana, oppure lo spaccato di vita carceraria nella sezione femminile di Regina Caeli, bene interpretato da Clelia Favetti e Alessandra Galdenzi, che in maniera surreale ci riporta quasi alla atmosfere de Nella città l’inferno con l’accoppiata Magnani-Masina), l’eccesso dedicato a canzoni e addirittura cover di sempreverdi italiani, un po’ gettato a caso, rischia in più di un’occasione di sbilanciare il precario equilibrio dello spettacolo e delle scene “di massa”.
In questo senso sarebbe stato di grande utilità e merito una più precisa organizzazione delle forze e della preparazione attoriale, come una migliore resa dei non pochi strumenti tecnici a disposizione (fa miracoli il tecnico di consolle, Valter Catena, per coniugare al meglio possibile luci, suoni e proiezioni d’immagini d’epoca sul fondale). Citiamo alcuni tra gli attori coinvolti in questa produzione, che si sono segnalati per maturità e interpretazione nei rispettivi ruoli: Mirella Mazzei, Gianni Monaco e soprattutto Alberto Del Fra impegnato da protagonista nella difficile apertura iniziale di De Rossi morente.
Con quest’ultimo abbiamo fatto una breve chiacchierata e alla domanda su quali fossero i suoi pensieri nei momenti più emozionanti e umani della vita del santo, quando si trova di fronte al dubbio, al fallimento, alla debolezza, ci ha risposto con grande semplicità: “pensavo che ero pieno di dubbi, di paura, che ero impotente a cambiare le cose”. Il riferimento in prima persona ai pensieri del suo Personaggio e soprattutto alla verità delle sue emozioni, rese in maniera assolutamente convincente in scena, ci è sembrata una bella lezione di teatro e la migliore immagine conclusiva della serata.