Nell’ormai lontano 1980 il grande regista Stanley Kubrick realizzava “Shining”, uno dei suoi grandi capolavori, ma soprattutto un film che ridefiniva e rivitalizzava un genere, l’horror appunto, in un periodo di grave crisi e di profondi cambiamenti. Jack Nicholson aveva sulla sue spalle l’onore e l’onere di raccontare la storia di un uomo che progressivamente impazziva, fino alle estreme conseguenze per lui e per la sua famiglia. Questo tragico personaggio cinematografico, come un’entità perturbante, sembra tornare alla mente assistendo all’ultimo spettacolo presentato nella Sala del Ridotto del Teatro Mercadante di Napoli, “Il Diario di un Pazzo” per la regia di Andrea Renzi, che ha tratto la messa in scena dal racconto “Le Memorie di un pazzo”, un testo del 1835 del grande scrittore russo Nikolaj Gogol’, per riadattarlo in un contesto come il profondo Meridione d’Italia sullo scorcio degli anni ’50 dell’appena passato secolo breve. Il protagonista, mirabilmente interpretato da Roberto De Francesco, si chiama Papaleo ed è un triste impiegato del ministero. Il diario, cui fa riferimento il titolo dello spettacolo, è quello che ci viene raccontato dal monologo del protagonista, che scrive e descrive la sua vita, le sue giornate, le sue peggiori umiliazioni e i suoi desideri più profondi. Il diario di un pazzo sembra una traiettoria più che un titolo, un percorso senza orizzonte. Jack Nicholson, che nel film sopracitato interpretava uno scrittore fallito che continuava a macinare pagine di romanzo, smascherava ad certo punto la sua schizofrenia attraverso poche parole ripetute all’infinito, tradotte in italiano “il mattino ha l’oro in bocca”, ma che nell’originale possono aprire una chiave di lettura per capire l’identità e la sofferenza di Papaleo: “All work and no plays makes Jack a dull boy”. Lavorare sempre e soltanto, senza la possibilità del divertimento, fa si che Jack diventi un ragazzo sciocco. Papaleo è uno sciocco nella misura in cui il lavoro, la qualità e la quantità del suo lavoro, lo spinge verso una coatta ottusità: è un impegatuccio, un quasi impiegato della nuova classe impiegatizia, tempera le matite negli uffici, poi deve svolgere delle commissioni all’esterno, poi ancora matite da temperare, ancora brevi commissioni e ancora matite. Papaleo è consapevole di vivere una vita sciocca perché noiosa e sempre in scacco, alle prese con gli ordini dei superiori e con le proprie frustrazioni personali, nella vita sociale come in quella sentimentale. Il pregevole lavoro linguistico di Roberto De Francesco, caratterizzato da un accento e da una flessione verbale che sanno raccontare la provincia dell’animo oltre che del ceto sociale, ci restituisce la sonorità, ma anche la fisicità di un personaggio alla ricerca di continue vie di fuga. Papaleo scrive il suo diario incessantemente, giorno per giorno, esorcizzando in qualche modo la sua disperazione, ma ben presto la scrittura non gli basta più per restare ancorato alla realtà, ma sembra addirittura enfatizzare il suo desiderio di fuga. La sua pazzia sembra quasi un tentativo di uscire dalla sciocchezza nella quale la sua vita sembra incastonata irrimediabilmente. Il suo diario, allora, perde di contorno e si fa sempre più sfumato nel racconto e fantastico nel suo contenuto. Soprattutto spariscono dal diario le date precise e quel testo comincia a diventare un romanzo assolutamente monologante. Questa soglia, il delicato e sfumato passaggio dalla normalità alla pazzia, è abilmente raccontato dalla regia di Andrea Renzi, che ha costruito la scrittura scenica dello spettacolo nel dialogo spaziale tra l’interpretazione di Roberto De Francesco e un armadio bianco a due ante con il quale interagisce. Questo singolo mobile, al centro della scena, descrive e circoscrive la vita di Papaleo, diventando di volta in volta casa, ufficio, porta, muro, piattaforma sulla quale salire, ricovero nel quale riposare, parate dietro la quale spiare. Questo armadietto, che si ricompatta costantemente, è il suo mondo, interno ed esterno. Tuttavia, Papaleo, alias Ferdinando VIII re di Spagna, si muove ormai oltre questo perimetro. Roberto De Francesco lavora moltissimo con le braccia verso un altrove cui dirigere tutto il proprio corpo. In particolare, colpisce il suo sguardo alienato e sudato, con occhi spiritati e visionari, nelle pupille quel luccichio cui si riferisce lo “shining” del film di Kubrick. Occhi che anelano ad una fuoriuscita ed a una deriva del suo armadio, ormai scisso, nel finale, in due parti separate.
Napoli – Ridotto del Teatro Mrecadante, 3.2.2011