L’affascinante mondo di Ascanio Celestini è fatto di parole, dell’intrecciare ritmato di discorsi, di associazioni, di rimandi. Un suo spettacolo è sempre tuffo nella ironica, monologante, frenetica ed efficace prosa che propone letture, associazione di idee, punti di vista, sul mondo, sulla realtà politica e sociale. Lo spettatore è investito da discorsi che sembrano battute comiche ma che hanno la volontà di far comprendere, far riflettere sulle incongruenze del reale, tra la parola e l’etica, il sentimento, la realtà.
Tutto questo è nello spettacolo Discorsi alla Nazione, dove accanto a un momento più libero in cui si parla di potere leggendo fatti reali, si affianca lo spettacolo vero e proprio, in cui il potere è letto attraverso una storia immaginata, fantastica. Si inizia appena gli spettatori entrano in platea, ma non tutti se ne accorgono: parte un tappeto sonoro di voci, spezzoni di discorsi di dittatori e personalità pubbliche, mentre Celestini dialoga con persone tra il pubblico. Sul palco poi inizia un momento introduttivo dove viene spiegata l’ambientazione dello spettacolo: siamo in un paese in cui c’è la guerra civile da tempo, ma di cui nessuno ne parla più. Un paese dove piove sempre e la pioggia è l’argomento dominante: quando c’è la guerra non muoiono tutti, invece la pioggia bagna tutti indistintamente.
In questa prima parte non si risparmia nessuno. Nel suo affabulante e a momenti divertente modo di argomentare, di associare, ha parole ironiche per dare una lettura del reale. Tutto il primo momento di monologo vive in una raffica incalzante di esempi di situazioni storiche incoerenti con le premesse e intenzioni (la Costituzione in cui si ripudia la guerra e l’Italia in guerra; il nobel per la pace a chi compila liste di persone da ammazzare). Incoerenti pure con l’espressione, ripetuta sempre, che identifica un suo carattere “io so de sinistra ma…” Uno squillo di telefono: una donna chiede al suo portiere di togliere la cosa che ha davanti alla porta, innominabile cadavere, in tempi di pioggia. Questo dialogo con il portiere fa da intermezzo tra i discorsi dei 4 personaggi su cui è costruito lo spettacolo, che vivono in zone diverse del palco con illuminazioni di diverse lampade sulla scena. In comune questi uomini hanno la grande dote di argomentare, raccontare le sfaccettature e i punti di vista e soprattutto rappresentare il potere, un modo di averlo e di gestirlo. L’uomo che vive all’attico, cerca di non darsi arie per questo, l’ombrello ce l’ha, ereditato dalla famiglia, e vedendo chi è sotto la pioggia gli manifesta solidarietà, come manda gli sms per i terremoti. Non darà mai il suo ombrello perché non questo non cambierebbe il mondo ma solo la propria posizione nel mondo (sotto la pioggia). Il potere è benevolo: chi è in difficoltà può stare sotto, non sotto l’ombrello ma sotto i suoi piedi. Da lì avere benefici e protezione: per forza di gravità, gratis, si protegge dalla pioggia, eredita briciole ma anche escrementi, quando succede.
Il secondo è l’uomo che ammazza indistintamente, senza pregiudizi, aiuta la società riducendo il numero di persone, crea nuovi posti di lavoro: vedere morire la gente trasforma il popolo in fatalista, perde il senso di lotta. L’uomo che ha la pisola in tasca, invece, vive una difficoltà di relazioni, la pistola gli fa immaginare ogni uomo come un bersaglio potenziale e questo gli dà potere, dentro, gli fa evitare di argomentare con le persone. Il momento culmine lo si ha con l’arrivo del dittatore. Pian piano porterà tutti alla consapevolezza che certo i potenti “sono una merda” ma che gli altri, i dominati non sono che lo specchio della stessa “merda”. Parassiti piccoli che beneficiano del sistema. L’unico contributo della sinistra sono vuote e meravigliose parole perdenti come compagno, lotta di classe, proletariato (bello l’omaggio a Gramsci e a un ipotetico governo costruito da lui). Tutti approfittano del sistema, comprando bond dalle banche, palloni cuciti da bambini, sfruttano a nero extracomunitari. Sono della stessa pasta. La conclusione enfatica del discorso incita, una volta tornati a casa, a guardarsi allo specchio e vedersi come lui. Parte un piccolo applauso nel pubblico e Celestini, uscito dal personaggio, ironizza: ci si sente chiamare merda e si applaude? La guerra civile è dichiarata finita. E vincitrice la logica del più potente. Perché, come canta nel finale, “passano le minigonne, le frangette di donne ma carota e manganelli non passano mai”.