L’Ecuba di Nicola Antonio Manfroce, andata in scena per la prima volta al San Carlo di Napoli il 13 dicembre 1812, è stata riproposta con successo a Martina Franca in un elegante allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi.
L’Ecuba di Nicola Antonio Manfroce, andata in scena per la prima volta al San Carlo di Napoli il 13 dicembre 1812, è stata riproposta con successo a Martina Franca in un elegante allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi.
Tra Francia e Italia
Manfroce fu artista geniale e sfortunato. Calabrese di nascita e partenopeo di formazione, morì appena ventiduenne nel 1813 dopo aver firmato due soli titoli operistici, Alzira ed Ecuba. In quest’ultimo lavoro, nato in una Napoli intrisa di cultura francese perché governata da Gioacchino Murat, l’autore mostra di aver profondamente assimilato molti tratti caratteristici della melodrammaturgia d’oltralpe, ma al contempo resta legato ad alcune irrinunciabili convenzioni nostrane. Proprio in tali accostamenti, che non sempre si traducono in equilibrio, risiede il fascino imperfetto e possente di Ecuba, che nasce come tentativo di creare una vera e propria tragédie lyrique in italiano e all’italiana. La partitura, pur senza rinunciare alle espansioni liriche tradizionali, guarda al futuro per lessico e costrutti. È ibrida e preziosa, improntata a tragica severità, governata da un ritmo serrato che sembra tradurre in termini scenici l’incalzare precipitoso di un destino inesorabile.
La monumentalità della messinscena
Per valorizzare queste componenti complesse e perfino contraddittorie, Pizzi ha tratteggiato con maestria grandi affreschi neoclassici. A dominarli è la presenza di un folto coro che conferisce maggiore solennità agli accadimenti. La turba dei troiani si dispone su ripidi piani inclinati ai due lati della scena, gli uomini a sinistra e le donne a destra, e con la sua presenza incombente sembra sottolineare il valore pubblico e collettivo delle azioni al di là dei destini individuali.
Bellissima la simmetria istituita tra il segmento iniziale e quello finale: l’azione incomincia con la visione della salma seminuda di Ettore, collocata, come in una toccante deposizione laica, su di un altare sopraelevato, e si avvia alla conclusione con i soldati greci che trasportano fuori scena il cadavere di Achille, appena trucidato.
I gesti sono tesi come i sentimenti che li determinano, senza però mai travalicare il confine del decoro. L’audacia del viola – la cui dittatura è invano contrastata dal nero, dal bianco e dal bronzo dorato – conferisce ai costumi una plasticità diretta e aggressiva. Nell’insieme l’effetto è severo ma mai algido.
Una produzione travagliata
La messinscena martinese ha dovuto superare due ostacoli di non poco conto. Prima è venuta la malattia che ha costretto Fabio Luisi a rinunciare alla direzione e a consegnare la bacchetta a Sesto Quatrini nell’imminenza del debutto. A seguire, un’indisposizione ha colpito anche Carmela Remigio, che nella première del 30 luglio è stata sostituita, pare egregiamente, da Lidia Fridman. Le avversità, dunque, sono state prontamente fronteggiate e non hanno compromesso la produzione. Nell’unica replica, seguita il 4 luglio e vista da chi scrive, la Remigio ha potuto calcare la scena e ha fornito una prova superba di recitazione e di canto. Dalla sua declamazione sempre perfettamente controllata la parola usciva come scolpita, esaltata nella grana fonica, arricchita di risonanze espressive per mezzo di sfumature finissime e appropriate. Per non parlare della sicurezza dell’intonazione e del perfetto dosaggio dei volumi, strumenti formidabili grazie ai quali il soprano abruzzese ha restituito magistralmente tutte le passioni estreme e sconvolgenti che scuotono il personaggio di Ecuba.
Roberta Mantegna nei panni di Polissena ha sfoggiato una solida abilità tecnica e una notevole capacità espressiva. Sul fronte maschile, i tenori Mert Süngü, turco, e Norman Reinhardt, americano, hanno fornito una prova più che apprezzabile, sebbene il secondo sia apparso talvolta poco incisivo sotto il profilo vocale e un po’ rigido nel gesto.
Sesto Quatrini ha il merito non solo di aver letteralmente salvato in extremis lo spettacolo accettando di far sua una partitura così inconsueta, ma di essere riuscito a fornirne una lettura stilisticamente appropriata e assai efficace.
La seconda rappresentazione di Ecuba ha chiuso in bellezza il XLV Festival della Valle d’Itria nello stesso giorno in cui venivano annunciati i tre titoli principali dell’anno prossimo: Leonora di Ferdinando Paër, La rappresaglia di Saverio Mercadante e Gli amanti sposi di Ermanno Wolf-Ferrari. Ad maiora!