Urbisaglia, teatro romano, “Elena” di Ghiannis Ritsos
IL DESTINO INELUDIBILE
Ghiannis Ritsos fu deportato e torturato durante il regime dei Colonnelli (fu posto in libertà vigilata, gravemente malato, solo a seguito di una protesta internazionale), ma in quegli anni scrisse un ciclo di monologhi ad andamento discorsivo sul tema del mito, nei quali la memoria individuale del poeta di identifica con quella dei protagonisti, che si sottraggono fino alle ultime conseguenze a un destino governato dagli dèi. Ritson si ispira alla cultura classica, ma compie un'opera di profonda attualizzazione del mito, ridisegnato secondo tematiche e situazioni proprie della quotidianità contemporanea, rendendolo in questo modo vicino, condivisibile.
Il teatro romano di Urbisaglia è un luogo irripetibile, anche quando viene usato al rovescio, gli spettatori in tribune artificiali dietro la scena e l'emiciclo di gradoni in pietra a fare da sfondo alla rappresentazione. La luce radente e giallognola evidenzia gli spigoli dei sedili, sovrastati da querce centenarie. A un certo punto un bagliore così luminoso che devo chiedere conferma al mio vicino che sia davvero una stella cadente: è un istante, che squarcia il buio del cielo (“ci sono istanti strani e solitari”).
Elena parla in prima persona, la storia non c'è e non la si racconta, se non per vaghi accenni che presuppongono la conoscenza storica e mitologica dei fatti. Elena era la moglie più bella del mondo e Afrodite aveva promesso a Paride di dargliela se lui l'avesse eletta la più bella fra le dee. A causa sua scoppia la guerra di Troia, perchè i greci volevano riprenderla indietro, mentre Paride la tratteneva in Asia Minore.
Elena è un fantasma tra i fantasmi, quelli del passato e quelli del presente; è una vecchia, pluricentenaria (“dovremo invecchiare molto prima di diventare giusti, il sereno distacco nei giudizi quando non avremo null'altro”). I segni della sua antica bellezza si sono dissolti, il corpo è in disfacimento. Vive in una stanza decrepita disseminata di oggetti che risvegliano la sua memoria, a tratti confusa, con struggenti momenti di ricordo, che rianimano il suo passato glorioso e felice: muri scalcinati, persiane scolorite (immagine ricorrente quella delle imposte o delle persiane negli scritti del greco), le inferriate del balcone arrugginite, pareti ammuffite, fontane senz'acqua, una tenda ingiallita sventola alla finestra. Ma la casa resiste, con tutti i suoi angoli, e, come la casa, anche Elena resiste, ora che si è affrancata dai suoi morti: è ormai trascorso tanto tempo dalle rivalità e le passioni si sono inaridite.
Una lunga agonia della parola accompagna il disfacimento naturale di quel corpo un tempo splendido, malgrado l'operosità delle serve ingorde, che la trattano male e le rubano cose prive di valore che però per lei sono tutta la sua vita.
Elena è in esilio dentro i suoi stessi abiti che invecchiano, dentro la sua stessa pelle, che avvizzisce. A nulla serve un amore, che si riduce ad essere un intruso nel letto, un intruso nella camera. Piano piano tutto si sfalda, inesorabilmente, come rubinetti che gocciolano e saponette profumate che si sciolgono nell'acqua. La storia della vita: la vanità di un inganno, l'illusione e la precarietà di ogni vittoria.
Paride è un paio d'occhi dietro un elmo, un bagliore: lei si offre come bersaglio, ben sapendo che nessuno avrebbe osato, impaurito dalla bellezza e dall'immortalità (molti autori ritengono che Elena fosse consenziente al rapimento). Quel che resta è una sorta di ricompensa, di giustificazione a distanza, una libertà immaginaria, un gioco del destino. Dopo Troia, Elena torna da Menelao, ma la vita a Sparta è così noiosa, così di provincia: “mio marito aveva smesso di viaggiare, non apriva più un libro, fumava, era sciatto, parlava dell'infedeltà di Clitemnestra oppure di Oreste. Eppure mi mancò molto quando morì, mi mancarono le sue minacce, come se quelle mi impedissero di invecchiare.” Invidia Ulisse, che tira così a lungo il suo viaggio di ritorno.
Elena a volte ride, ma è un riso rauco, che sembra salire dalle viscere della terra. A volte si vede con in testa un elmo, a volte si vede con in testa un vaso da notte, mentre disegna i baffi sulle sue statue, dopo avere abbandonato nella stalla il suo cavallo di Troia.
Poi scompare ogni cosa. Silenzio assoluto. “Le Simplegadi si sono trasferite altrove, in un luogo più interno. Adesso puoi andare, si è fatta notte, ho sonno. Vorrei poter dormire, dimenticare: la paura del sonno è invero quella del risveglio. I ragni sui muri, i morti che respirano, sbuffando profondamente. Ho perso i miei morti, è finita”.
“Che triste storia, dare un nome a un'ombra dentro il letto, io che mi aggrappo al mondo, ora che dimentico i nomi più familiari e li confondo”.
In un teatro pericolante, di quartiere, Elena si dissolve, ritrova la sua estraneità dalle catastrofi, dalle azioni dell'uomo che l'aveva coinvolta, da una storia che l'ha inesorabilmente imprigionata. Le statue di lei rimangono accanto agli alberi fuori dalle case; la luna solitaria è ingannatrice.
Per Ritsos Elena personifica la convinzione che qualcosa si salva sempre da un naufragio, dalla distruzione totale: “là dove qualcuno resiste ancora senza speranza, forse lì rivive la storia come la chiamiamo noi e le bellezze umane, su quei tripodi in cui arde un po' d'alloro e il fumo sale sfilacciandosi come il vello d'oro”.
Mariangela D'Abbraccio interpreta leggendo, avvolta in un sontuoso abito color avorio di Maria Rosaria Donadio, lungo e svolazzante epperò al tempo stesso che evidenzia le sue forme piene e generose. Lei è così sensuale e morbida che sembra davvero Elena, la più bella tra le donne, in piedi davanti al leggìo. A volte si sente la necessità di una pausa, che invece non c'è. In sottofondo musiche, rumori e suoni di Giacomo Zumpano. Mi sono sembrate poco utili le proiezioni sui teli color avorio che chiudono un lato del palco: le parole di Ritsos, qui tradotte da Nicola Crocetti, sono così visionarie e potenti, hanno una forza immaginifica, al punto che non debbono essere accompagnate da vere immagini. Infatti lo spettatore vede quegli occhi, quelle stanze cadenti, quel corpo nudo, anche affidandosi al solo udito. E agli occhi della mente. Francesco Tavassi, regia, scene, luci e proiezioni, è alla seconda, felice prova con i monologhi di Ritsos, dopo Fedra interpretato da Elisabetta Pozzi.
Visto a Urbisaglia, teatro romano, il 18 luglio 2007
Francesco Rapaccioni
Visto il
al
Teatro Greco di Tindari
di Tindari
(ME)