Nonostante qualche abbandono durante gli intervalli, lo spettacolo è stato accolto da applausi sinceri e convinti. Markus Stenz si è mosso con grande cura, all’interno della miriade di notazioni espressive presenti in partitura, che hanno richiesto all’Orchestra del Teatro alla Scala sonorità cameristiche.
Opera dalla lunga gestazione, più volte rimandata, e per molti anni inseguita dal sovrintendente Alexander Pereira, Fin de partie di György Kurtág ha debuttato in prima esecuzione assoluta al Teatro alla Scala.
Nichilismo e incapacità di rassegnazione
Giunto all’età di 92 anni, con un catalogo di composizioni estremamente misurato, il musicista ungherese ha coronato un suo progetto risalente ad oltre mezzo secolo fa ed ha scritto la sua prima opera lirica, tratta dall’omonimo testo teatrale di Samuel Beckett.
Capolavoro del teatro dell’assurdo e del nichilismo, il testo prende il nome da una particolare condizione del gioco degli scacchi che si verifica quando, pur mancando ancora un certo numero di mosse, uno dei due giocatori si rende conto di avere irrimediabilmente perso e dichiara la sconfitta.
Dal punto di vista della trama, più che di una storia si può parlare di una situazione, priva di un vero sviluppo drammaturgico. In una casa in riva al mare, circondata dal nulla, vivono Hamm, cieco e su una sedia a rotelle ed il servo Clov che, unico in grado di camminare, si occupa anche di Nagg e Nell, genitori di Hamm, rimasti senza gambe e relegati in due bidoni della spazzatura. Nella reciproca insofferenza, tutti vivono questa situazione di stallo nell’attesa della fine. Nell morirà nell’indifferenza, probabilmente seguita da Nagg, mentre Clov troverà il coraggio per andarsene lasciando solo Hamm che però si rifiuterà di gettare la spugna, perché nella vita l’uomo, pur sapendo che perderà la partita, insiste per giocarla sempre fino in fondo.
Frammenti musicali per un dialogo frammentario
In quest’opera i dialoghi frammentari di Beckett sembrano sposarsi perfettamente con lo stile altrettanto frammentario e parcellizzato di Kurtág, fatto di minime cellule musicali che, grazie ad un minuzioso lavoro di cesello, vengono plasmate sul testo originale francese che lo stesso musicista ha ridotto, di circa la metà. Lo studio fonetico sulla lingua francese ha modo di manifestarsi in un’ampia gamma di soluzioni che vanno dal sussurrato, al parlato al lirico. Non vi è nessuna modalità progettuale come serialità o dodecafonia, anche se la musica si ispira a forme del passato, rielaborate in modo assolutamente personale. Il risultato è una partitura affascinante, che esalta il testo stemprandone in parte la forte componente nichilista.
Regia e concertazione meticolose
Nell’affrontare un’opera che fa della staticità e della ripetitività i suoi punti fondanti, Pierre Audi costruisce una regia attenta, misurata, fatta di minuziosi dettagli, in linea con la partitura musicale. Le scure scene metalliche di Christof Hetzer, impreziosite dalle fredde e radenti luci di Urs Schönebaum ambientano la vicenda all’esterno della casa anziché all’interno, privandola di quel senso di claustrofobia e di ipotetico ultimo avamposto dell’umanità presenti nell’originale beckettiano.
Assolutamente in parte i quattro interpreti: Frode Olsen è un Hamm dispotico e cieco, sia fisicamente che emotivamente, cui fa da contraltare il dinamico Clov di Leigh Melrose. Pur immersi nei loro bidoni, spiccano la Nell di Hilary Summers, il personaggio dalla linea musicale più lirica, e il grottesco Nagg di Leonardo Cortellazzi.
Markus Stenz si è mosso con grande cura all’interno della miriade di notazioni espressive presenti in partitura, che hanno richiesto all’Orchestra del Teatro alla Scala, in un’ampia formazione, sonorità cameristiche. Nonostante qualche abbandono durante gli intervalli, lo spettacolo è stato accolto da applausi sinceri e convinti.