Prosa
FINALE DI PARTITA

Il teatro dell’assurdo di Sam…

Il teatro dell’assurdo di Sam…
Il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett in alcune sue particolari commedie si trasforma in Teatro dell’Implacabilità: “Finale di partita” è tra queste. Qui più che mai l’eterno attendere si fa metafora del Vuoto universale che circonda i due protagonisti. Hamm e Clov, due sopravvissuti a un non ben definito disastro, esprimono in ogni parola del loro rituale quotidiano, l’odio e la disperata necessità che hanno uno dell’altro, suggerendo un ulteriore stadio del “decorso” che è inevitabilmente in attesa, per entrambi, per tutti. La rovina del mondo esteriore, nascosta al pubblico e agli occhi spenti di Hamm, e solo suggerita dalle parole frettolose di Clov, si riflette in maniera molto più vivida e credibile nello spazio interno, vuoto, vissuto dai due, pervaso unicamente dalla loro solitudine e da quell’attesa che alla fine diventa superflua e inutile. Un uguale destino li attende, una fine lungamente prevista, come una mossa di scacchi, che arrivi repentina e inevitabile. C’è un sottile confine tra il presunto olocausto nucleare che ha fatto di questi due non-morti gli unici esseri viventi della terra e l’effettivo decadimento dei corpi e delle anime. Viene allora da chiedersi se il deserto che appare al cannocchiale di Clov risieda effettivamente in un mondo annientato e ridotto al silenzio, o sia piuttosto metafora del cuore isterilito dei due, che si lasciano vivere giorno dopo giorno, cullandosi uno dei propri ricordi, delle voci lontane dei “progenitori” che ancora conserva in casa con sé, e l’altro del proprio rancore venato di una stanca rassegnazione che gli impedisce di prendere una qualunque decisione. In questa messinscena Pippo Di Marca, che presta un volto ieratico e inquietante al cieco Hamm, insiste diligentemente su queste dicotomie tra il vuoto esterno e il deserto dell’anima, sottolineato, incalzato dalla polifonia vocale con cui intesse i dialoghi monotoni e surreali con il suo servo, l’incisivo e generoso Lodoli. È proprio l’intensa rarefazione di significato ed espressione delle parole a portare lo spettatore in una dimensione di non facile visione e comunicatività: ma se si prova ad ascoltare piuttosto che a vedere lo spettacolo, ecco che il testo beckettiano si rivela in tutta la sua densità e ricchezza, in quell’Essere e Non Vivere che i due attori paiono rincorrere lungamente tra una battuta e un silenzio. Si esce leggermente storditi, consapevoli che quel finale di partita appena terminato possono ripresentarsi a ogni momento, nel cuore di ognuno di noi, quando la luce pare spegnersi in una penombra priva di dolore e di speranza. Roma, Atelier Metateatro 31 maggio 2008
Visto il
al Metateatro di Roma (RM)