Un salone desolante, pochi elementi essenziali, precisi: il pavimento a quadrati bianchi e neri, il quadro appoggiato sulla mensola del camino a mostrare il dietro, i due bidoni, le due opposte alte finestre, il grigio del tutto e al centro Hamm sulla sua sedia e Colv rigido in piedi. Un colpo d'occhio che ben promette, la scena e i costumi di Massimo Balò restituiscono il gusto e l'atmosfera del testo, tutto fa pensare ad una scelta di rigoroso rispetto del testo.
Clov, da copione, comincia il suo rito mattutino con “andatura rigida e vacillante”, va bene, un po' marionetta un po' robot un po' troppe smorfie, ma va bene, lo spettacolo prosegue bene.
Hamm, gesti puliti netti, ricco di sfaccettaure, sottolineature espressive, vocali; grande presenza scenica e padronanza: un mirabile Franceschi. Qualcosa non va, stride.
“I maledetti progenitori”, ottimi caratteri, dai loro bidoni come pupazzi da teatrino di strada fanno le loro scenette e contro scenette. No decisamente no, qualcosa stride ancor più forte.
Hamm e Clov entrambi in giacca da camera e mutandoni di lana, uguali ma opposti nelle possibilità - l'uno cieco e fermo su una sedia, l'altro vedente e impossibilitato a sedersi – giocano le battute fanno le mosse previste dal finale di partita di Beckett tutto sembra a posto ma qualcosa non va proprio. Il rapporto tra i due non rende la finezza del testo, non restituisce quella sottile ma irrinunciabile amara ironia che nasce dalla comicità dell'infelicità e dal disincanto di chi sa che “siamo al mondo e non c'è più rimedio”. Tutto è evidente, sottolineato, urlato, da una recitazione da commedia borghese, di maniera che mal si addice al processo di riduzione messo in atto dall'opera di Beckett.
Uno spettacolo in cui manca qualcosa perché c'è qualcosa di troppo, un troppo che appesantisce e annoia come un pranzo di Natale senza regali. O meglio con troppi regali per il timore di non trovare quello giusto: peccato, una bella occasione mancata.