In principio, uno schieramento: gli attori seduti in fila davanti al pubblico, in tuta blu, divisi in due squadre. Dietro di loro, una scenografia raffinata mostra un interno a metà fra il centro sociale e la casa operaia, povertà di interni (il tinello) e paccottiglia comunista, senza che l’evocazione ceda il passo alla ricostruzione realistica né alla caricatura.
Poco prima, lo spazio si era caricato già, e la simbologia della scena si era arricchita nel contrasto con il prologo fatto di suoni e note di chitarra elettrica e felpe rosse col cappuccio e atteggiamenti grunge: rimandi insomma, più che simboli di quell’America da rivista per teen-ager ‘80/’90.
Mostrate le due parti, comincia il gioco degli Orazi e dei Curiazi: gioco o meglio laser game, in cui il linguaggio, la cifra della compagnia rimane chiara e presente come un’ossatura solida, e non si lascia riassorbire dalla molteplicità di linguaggi sperimentati. E’ la ricerca riconoscibile degli Artefatti, che al qui e ora teatrale e al contatto vero con il pubblico sacrifica facilmente il controllo del dialogo, il vecchio “attaccare la battuta”. La dilatazione del ritmo e più in generale l’ariosità che ne consegue si adattano alla ricchezza del tessuto drammaturgico, leggibile su più livelli.
“Molte cose sono in una cosa”: c’è un gioco, appunto, sul linguaggio teatrale - le scene/controscene rispetto alle tirate epiche di Francesca Mazza, che con leggerezza prende in giro non il testo aulico, ma la reverenzialità spesso cieca che ne accompagna la lettura in teatro (- Se andiamo in guerra, chi lavorerà i campi? - I campi? - … -... - Non ci pensate!)
C’è il gioco fra le due fazioni, la storia vera e propria della lotta fra Roma e Albalonga commentata alla lavagna, nell’accezione di “storia” che il dramma didattico propone.
C’è il divertissement, la clownerie della torta in faccia, la tecnologia (la telecamera a circuito chiuso, un po’ reality un po’ traslazione degli accadimenti scenici ad un livello diverso attraverso un’immagine diversa, più scura quasi sempre, ravvicinata, straniata verrebbe da dire dalla scelta dell’angolazione, quasi provenisse da un altro luogo); c’è il travestimento, che sposa l’immagine colorata del big Jim, della Barbie e lo confonde allegramente con il costume tradizionale Giapponese.
C’è, chiaramente quanto dichiaratamente, il discorso politico: ma è bello vedere come la densità dei segni in scena - la recitazione, la regia, la scenografia - questa capacità di significazione sia così precisa da rendere davvero superflua la morale brechtiana, per quanto capovolta (e in questo, anche la preoccupazione di chiarezza didattica è esibita, “Forse non è ancora chiaro” commenta il guerriero mentre prepara la tribuna da cui il suo comandante parlerà il discorso politico: tribuna rossa con falce e martello in effige).
E’ probabile che la gestazione del progetto sia nutrita da uno studio precedente: si intuisce infatti che questa complessità morbida è una complessità di risulta, una leggerezza conquistata con rigore.
Far bene le cose come ultima forma di resistenza.