Per la nuova produzione l’Accademia degli Artefatti sceglie di mettere un scena “Orazi e Curiazi” testo minore di B.Brecht collocato tra i drammi didattici del grande drammaturgo tedesco.
Un progetto che pur interessante sulla carta per la volontà di descrivere le dinamiche del potere e il modo in cui affrontiamo le derive della realtà contemporanea, si scontra con scelte registiche che appesantiscono e strozzano intepreti e testo.
Gli interpreti mescolano voci impostate, artifici naturalistici ad una recitazione dichiaratamente eccessiva che purtroppo anziché arricchire il testo enfatizzandone i molteplici livelli, lo dilunga all’inverosimile sfidando pazienza e partecipazione degli spettatori.
Non è un caso che nella replica al Festival Drodesera una gran parte del pubblico lasci la sala.
Troppe azioni e troppi oggetti, per un palco sempre più disordinato e caotico.
Il caos può essere, ed esserlo in modo interessante, una scelta estetica ma non prescinde dal dover essere costruito con attenzione e cura dei dettagli.
Il palco di Orazi e Curiazi diventa un campo di battaglia, e questa sarebbe un’immagine assolutamente coerente col tema se non fosse per la sciatteria con cui viene creata e per la difficoltà tecnica in cui si trovano gli stessi attori che, dovendosi preoccupare di non scivolare o inciampare, perdono energia.
Gli oggetti, la maggior parte delle volte inutili e fini a se stessi, non aggiungono nulla anzi impoveriscono la portata simbolica della parole. Tralasciando riflessioni sulla necessità di far bruciare un ripiano o di portare in scena un enorme modellino con la ricostruzione della battaglia, l’esempio più calzante sono i fili elastici che pendono dalla graticcia. Sei fili neri in mezzo allo spazio a cui solo alcuni attori, senza che se ne capisca la logica, si attaccano e staccano per passare poi il resto dello spettacolo a evitarli e a liberare gli altri oggetti che ci rimangono puntualmente impigliati. In potenza quella del soldato-attore burattino avrebbe potuto essere una bella immagine ma si disperde nel caos assoluto.
Da quanto l’effetto dello straniamento è diventato sinonimo di noia? In questo spettacolo l’unico pensiero lucido possibile resta: come abbandonare la sala velocemente.
La ricerca di Brecht era fatta da un abile mescolanza di ritmi e alternanza di livelli che enfatizzavano l’artificiosità del teatro per far risaltare la crudezza della realtà, chiedendo agli spettatori, senza però trattarli da stupidi, di prendere una posizione.
Nella versione dell’Accademia degli Artefatti le risate vengono piano piano soffocate dalla ripetitività e le riflessioni messe a tacere dalla confusione.
Lo spettacolo ha anche alcune trovate interessanti come l’idea di inserire la ricostruzione di una vicenda storica nella nebbia di un mondo post nucleare su cui tirar le somme, purtroppo anche l’inizio si dilunga eccessivamente e soprattutto l’idea non viene sviluppata fino in fondo ma abbandonata a semplice introduzione.
“Proviamo a immagine un mondo in cui non c’è niente da ridere!”, recita il testo conclusivo dello spettacolo ricco di molte altre frasi suggestive che fanno riflettere sul ridere come strategia per non guardare in profondità e sulla paura di affrontare la realtà senza artifici. Buffo che quel testo possa essere letto come critica allo spettacolo stesso: non ricorrere alla facile comicità e ricercare più semplicità senza nascondersi dietro eccessive macchinazioni.