Fra tutti i personaggi femminili del teatro moderno quello di Hedda Gabler è forse il più frainteso, mal giudicato, vittima, anche nella sua fortuna critica, della stessa concezione della donna che Ibsen, prima ancora che denunciare, semplicemente indica nella sua pièce.
Hedda è vista come donna doppia, manipolatrice, aristocratica insofferente della condizione borghese nella quale si viene suo malgrado a trovare, calcolatrice, incapace di adattarsi, di accontentarsi, disonesta, tutti pregiudizi che nascono dal maschilismo con cui viene percepita e giudicata. A ben vedere Hedda mette in luce con la sua esistenza i limiti patriarcali imposti alla donna che, per potersi esprimere, non può prescindere dall'uomo. Hedda non può prescindere dal padre, che l'ha cresciuta coltivandole il gusto per i cavalli (la cui valenza va ben al di là dell'estrazione di classe) e per le armi (che non si addicono a una donna, tant'è che lo sparo finale invece di denunciarne subito il suicido, viene accolto dal marito come una delle sue stravaganze ora ricomincia a giocare con quegli arnesi). Un padre dal quale può sottrarsi solo legandosi a un altro uomo, come quelli che ha frequentato da ragazza (cioè da donna non sposata) gli unici in grado di raccontarle una vita che a lei, in quanto donna, è preclusa, non solo il libertinaggio amorale di Ejlert Lõvborg (al quale chiede, ottenendoli, i più inconfessabili dettagli) ma anche la mera affinità intellettuale (le sottili allusioni ironiche con il consigliere Brack). Tutto si addice poco a una donna, la cui unica funzione è quella di generare la vita (non si dimentichi che Hedda è incinta) o essere musa ispiratrice per l'intelletto maschile (come fa Thea Elvsted con Ejlert Lõvborg, unica sua ragione d'essere).
Hedda comprende benissimo che la vita che può avere una donna, non importa il suo rango o la sua intelligenza, è solo una vita riflessa, imprescindibile dall'uomo, dal quale non si affranca nemmeno quando conquista la libertà sessuale nell'unico modo allora riconosciutole, quello della prostituzione (come la signorina Diana, dove Ejlert trova la morte tramite un colpo di pistola esploso non alla tempia ma verso il basso ventre) perchè l'uomo in quel caso è suo cliente.
Insomma tutt'altro che femmina moderna come la definisce Silvio D'Amico con misoginia insopportabile, Hedda è una donna, frustrata, la cui immoralità (nonostante non sia disposta a tradire il marito) è dedotta dai gesti che Hedda compie (la distruzione per gelosia del manoscritto di Ejlert ispiratogli da Thea, che non a caso lo intende come un figlio) o induce gli altri a compiere (l'istigazione al suicidio purché fatto con bellezza di Ejlert al quale dona una delle sue due pistole) misoginamente considerati gesti da strega mossi da calcolo o vendetta e mai, onestamente, come segno estremo di un'insoddisfazione per la sua vita, totale e devastante. Così quando il consigliere Brack prova a ricattarla sessualmente in cambio del silenzio sulla provenienza dell'arma con cui Ejlert si è suicidato, praticamente davanti a suo marito Jõrgen, troppo preso dal tentativo di recuperare il manoscritto perduto dagli appunti che Thea ha gelosamente conservato per accorgersene, a Hedda non rimane che il sudicio.
Una donna capace di tale autonomia nel comportamento e nelle decisioni che riguardano anche la vita di altre persone, di altri uomini, non può che essere percepita con un fastidio tale che pur di farne una donna satanica si arriva a considerare umili (sic!) le creature che la circondano, come fa D'Amico, oppure a ridurne spessore e valenza nella constatazione superficiale che di Hedda Ibsen non ne fa un modello (come scrive Giuseppe Lanza nel dizionario Bompiani).
Nell'allestimento di Rosario Tronnolone, il primo elemento cui bisogna dare merito è proprio il risarcimento morale che il regista compie nel restituire, pur rimanendo fedelissimo al testo di Ibsen (che ha ritradotto per l'occasione) la profonda, frustata e insofferente umanità di Hedda. Miriam Spera incarna una Hedda imperturbabile solo all'apparenza, percorsa in realtà da una frenesia di vivere (per sé e non per la vita o felicità altrui), tangibile, emozionante e indimenticabile. Una Hedda ben più complessa di quella semplificata dalle coordinate del maschilismo, che Miriam Spera fa sua con una sensibilità drammaturgica e una presenza scenica sorprendenti, aggiungendo un altro personaggio splendidamente interpretato ai tanti già portati precedentemente in scena.
D'altronde Tronnolone sceglie con felicissima sensibilità per il casting gli interpreti di tutti i personaggi: Paola Sebastiani è una zia Julie talmente intensa da rimanere in scena ben oltre lo spazio che Ibsen le concede; Alessandro Pala è uno Jõrgen indovinatamene svagato e naïf; Marcello Donati è un Ejlert fragile e seducente proprio come gli si confà mentre Franco Sciacca è un consigliere Brack sufficientemente profittatore e senza scrupoli, mentre Patrizia Pezza dà alla signora Elvsted tutta l'irrazionale caparbietà con cui si ama incondizionatamente.
Tronnolone si permetten una sola semplificazione nel testo, l'espunzione della serva Berte che rimane nell'inizio come voce fuori scena mentre, unico vero discostamento da Ibsen, apre la pièce con Hedda già in scena, di spalle, intenta a contemplarsi in uno specchio simbolico, del quale è appesa solo la cornice della scena d'effetto di Serena Clementini, che tra chaise longue, tavoli, fiori e tende, dissemina il palco di gabbie vuote, e aperte, e di cornici prive del contenuto.
Scena nella quale i costumi di Loredana Campus spiccano in tutta la loro eleganza (quelli di Hedda in primis, che Miriam Spera cambia con velocità sorprendente) e le luci (di Luisa Monnet) non si limitano a restituire con con concreta efficacia le diverse ore del giorno ma si fanno anche espressione emotiva di quanto accade sul palco mentre le musiche, tratte dalla colonna sonora de La donna della porta accanto di Truffaut, commentano con un aderenza sorprendete al testo ibseniano il portato emotivo ed esistenziale della vicenda narrata il cui non detto, vera forza del testo teatrale, è elegantemente suggerito dalla regia di Tronnolone.
Un accostamento non casuale al film di Truffaut, nel quale Tronnolone vede diverse rispondenze alla Hedda di Ibsen, tanto da farne un omaggio nelle note di regia presentando la storia raccontata con lo stile del film.
L'associazione culturale Come in uno specchio continua a regalarci degli allestimenti impeccabili e memorabili, la cui cura artigianale mostra come il teatro sia ancora vivo e abbia molto da dire nonostante gli sforzi di molti per farlo tacere.
In scena fino a domenica 11, questa Hedda Gabler è uno spettacolo imperdibile.
Da vedere. A ogni costo.