E’ un Pirandello quasi destrutturato, quello che mette in scena Roberto Latini con la sua versione de I Giganti della Montagna.
E’ un Pirandello quasi destrutturato, quello che mette in scena Roberto Latini con la sua versione de I Giganti della Montagna, ultimo e incompiuto lavoro del drammaturgo siciliano.
In un’atmosfera onirica – quasi da incubo – si affastellano immagini della trama pirandelliana, come a volerne distillare l’essenza e metterne a nudo i segreti meccanismi. Le vicende della contessa Ilse e della sua compagnia di attori vengono interpretate interamente da Latini, che si cala nei panni ora di uno, ora dell’altro personaggio. Le transizioni avvengono grazie all’uso di parti del costume di scena e di microfoni che distorcono la voce dell’attore. Quest’ultimo espediente scenico tuttavia risulta controproducente, rendendo la comprensione del testo, di per sé già complesso, ancora più difficoltosa.
La messa in scena è estrema, vorticosa, a tratti dolorosa. Si intuisce nella recitazione di Latini l’impellenza del dire, eppure molto – troppo – rimane taciuto. L’elemento meta-teatrale dell’opera avrebbe forse fornito maggiori spunti, ma questo aspetto viene quasi completamente ignorato.
Il risultato è una sequenza di scene esteticamente molto ben studiate e dall’impatto visivo coinvolgente, ma alle quali manca l’elemento organico, il filo che collega queste piccole perle recitative. L’impressione è quella di un lungo monologo interiore, un’affannosa ricerca di significato all’interno della propria arte, estremizzando in certo modo la parte fenomenica del teatro, ma sfilacciando nel contempo l’unità drammaturgica.
Molto suggestiva è invece l’ossessiva ripetizione delle ultime parole scritte di proprio pugno da Pirandello per quest’opera prima che la morte gli impedisse di portarla a compimento. In una sorta di mantra accompagnano l’intera pièce, raggiungendo la catarsi nel finale. Altrettanto efficaci sono la musica e le luci, ma soprattutto la magistrale scenografia, che sostengono fattivamente lo svolgersi del dramma.
Roberto Latini, facendo forse un passo di troppo, ha esasperato il disorientamento, portando alle estreme conseguenze la alterità del testo pirandelliano, la sua qualità di non-luogo, tempo-fuori-dal-tempo. La fantasmagoria che ne risulta è affascinante, ma disorganica.