Prosa
I GIGANTI DELLA MONTAGNA

Roberto Latini e "I Giganti della montagna"

Roberto Latini e "I Giganti della montagna"

Solitudine, infelicità, ansia, paura, ossessione, disperazione e costernazione per un’arte non apprezzata dal mondo. Sono solo alcune delle sensazioni che si provano seguendo l’adattamento che Roberto Latini ha creato per “I Giganti della Montagna”, l’ultima opera di Luigi Pirandello, rimasta incompiuta per la morte dell’autore e che andò in scena postuma nel 1937.

Chiunque vada a teatro credendo di assistere alla messa in scena tradizionale del testo pirandelliano, che racconta le vicende di una compagnia di attori che trovano rifugio in una villa isolata, rimarrà deluso. Roberto Latini, anche in questo lavoro, esprime tutto il suo talento creativo trasformando "I Giganti della Montagna" in un grande e ricercato esempio di teatro contemporaneo. Concettuale, moderno e con un linguaggio poetico che racconta il senso ed il mistero della vita e delle sue sofferenze. A volte si tratta di una narrazione impegnata (e forse non per tutti) ma sempre coinvolgente e appassionata.

La vicenda racconta di una compagnia di artisti-girovaghi guidati dalla contessa Ilse, che non riesce a trovare uno spazio scenico per rappresentare lo spettacolo dal titolo “La favola del figlio cambiato”. In una notte buia, in cui solo la pioggia scrosciante spezza un silenzio opprimente, arrivano in una villa detta "la Scalogna” (il nome è già un programma). L’abitazione sembra abbandonata ma si scoprirà che abbandonati e solitari sono i suoi abitanti, ossia un gruppo di disadattati che, dopo l’iniziale diffidenza, accolgono gli attori. Le reciproche solitudini e inquietudini trovano la giusta composizione. 

Luogo e tempo sono indefiniti come se Pirandello avesse già avvertito e respirato quel senso di incompiuto che poi si concretizzerà per la sua morte. Un aspetto anacronistico che viene rispettato e riprodotto anche nella sceneggiatura di Roberto Latini. Il contesto è scarno, adornato da uno sgabello, da un campo di spighe rinsecchite e illuminato da un lampadario mobile quasi spettrale.

Il regista e attore romano trasforma l’incompiutezza dell’opera pirandelliana in un punto di forza e, anzi, espressamente dichiara di essere attratto dai testi incompiuti perché gli appaiono congeniali alla stessa idea di teatro. Su questa base può osare e creare un adattamento personalissimo, in cui la massima potenza è attribuita alla parola. Come già anticipato, la scenografia è essenziale, anche se bisogna riconoscere che le musiche e i suoni di Gianluca Misiti, accompagnati dalle luci di Max Mugnai, creano un’ambientazione suggestiva. A volte sembra quasi di assistere ad un concerto tanto la musica (spesso moderna) invade il palco. Le luci, sempre molto cupe, mettono in risalto solo una parte del corpo, spesso il viso, lasciando ad ognuno di immaginare quello che vuole. La fisicità di Roberto Latini si esprime nell’ombra ma risulta evocativa oltre che prorompente.

Tutti i personaggi, maschili e femminili, sono interpretati dallo stesso regista-attore che manifesta tutta la sua bravura. Gli bastano una voce (a volte naturale e altre acusticamente alterata), una diversa postura, dei movimenti impercettibili, una maglietta o un torso nudo per raccontare l’universo interiore e tormentato dei protagonisti, facendo dimenticare che – tutti- escono dallo stesso corpo. Le parole e le frasi sono spesso ripetute più volte, compulsivamente per accresce il senso di ossessione. A volte le parole vengono scritte sullo sfondo perché siano ancora più forti e descrivono uno stato d’animo (la paura) o raccontano il contesto e le condizioni climatiche.

In alcune scelte, lo spettacolo di Latini ha un qualcosa di circense. La musica incombente e amplificata, la voce distorta dal microfono, la gestualità vivace ma mai decontestualizzata dell’attore, l’arrivo del mago Cotrone sui trampoli e l’ultima scena in cui il protagonista recita sospeso nel vuoto sono tutti elementi di grande effetto.

Visto il 30-01-2015