In un palco trasformato in un magazzino ingombrato dagli oggetti più disparati – statue scolpite, biciclette sospese al soffitto, curiosi marchingegni apparentemente senza scopo – poche luci sottolineano un letto disfatto e un’aria da luogo abbandonato, o piuttosto in attesa di qualcuno. Quel qualcuno non tarda ad annunciarsi, con una chiassosa apparizione letteralmente in braccio al pubblico: sono Ben e Gus, i due protagonisti dell’opera di Harold Pinter, qui data in pasto alla regia surreale, pressoché onirica, di Pietro De Silva.
I due protagonisti conservano il rigoroso abbigliamento pinteriano (completo blu, cravatta, cappello), e anche la loro ambigua professione che viene fuori man mano che la vicenda procede e i preparativi per quell’appuntamento con la vittima di turno che incalza. Sempre nell’atmosfera pinteriana scorrono le lunghe ore di attesa della chiamata che confermi l’appuntamento, passate nel modo più banale, tra dialoghi senza senso, provocazioni verbali e non solo, mentre di tanto in tanto inizia a far capolino una pistola. Poi gli eventi precipitano: si rivela il calapranzi con la sua improbabile funzione di comunicazione con un servizio ristorante che non dovrebbe esistere, la crescente preoccupazione e frustrazione dei due raggiunge il climax atteso per l’inatteso (ma quasi intuibile) scioglimento finale.
Delle atmosfere volute da Pinter questo spettacolo rispetta alcune cose, più delle altre una sorta di malinconia, di disadattamento sociale cui i due protagonisti non sfuggono nella loro solitudine e nella difficile convivenza con uno spazio e un tempo assolutamente straniati. Si evince in maniera sufficientemente chiara il rapporto fragile, superficiale instaurato tra i due personaggi, pure non privi di profondità ed introspezione psicologica. Sappiamo anche che questo binomio si forgia sull’apparente forza impersonata da Ben (qui trasformato in un siciliano arrabbiato ma non macchiettistico, interpretato con attenzione da Maris Leonetti) e sulla complessità tutta interiore del fragile Gus (un grande Pierpaolo De Mejo), che qui sfoggia uno strepitoso paio di occhiali ‘fondo di bottiglia’ da miope senza speranza e una postura fisica che ricorda a tratti il Mr. Bean più riuscito. Qua e là tuttavia l’opera smarrisce quel carattere sopito di violenza e di perdita delle più normali relazioni sociali, fortemente perseguito da Pinter. Questo avviene soprattutto nelle parti in cui ha operato una scelta registica precisa, che ha messo in secondo piano il puntuale testo dell’autore per sottolineare trovate interpretative e staccati comici, che però riducono l’evoluzione e la ricchezza dei personaggi a semplici pezzi di bravura, in un testo in cui la verve comica non è al primo posto delle urgenze narrative.
Si assiste così a uno spettacolo piacevole e funzionante in ogni sua parte, dalla regia originale e attenta, alle ottime prove dei due giovani interpreti, alla rimarchevole scenografia di Andrea Colusso), dove tuttavia non sempre viene compresa e seguita l’idea originaria dell’autore, per privilegiare invece una dimensione più spuria, ambigua, divertita e divertente in cui però si smarriscono quelle caratteristiche così rigorose e geniali che hanno fatto del Calapranzi uno dei migliori strumenti della drammaturgia moderna, specchio fedele di una profondità e di un’inquietudine assolutamente moderni.
Visto il
09-03-2010
al
Lo Spazio - Sala Grande
di Roma
(RM)