Prosa
IL CONTAGIO

Tra il palcoscenico e la prim…

Tra il palcoscenico e la prim…
Tra il palcoscenico e la prima fila di sedie del pubblico non c’è quasi spazio, c’è un nastro però, di quelli bianchi e rossi che si mettono per marcare i cantieri stradali. La distanza viene ulteriormente annullata dal primo intervento, quasi dimesso, del regista, che pare capitato là all’ultimo momento. Invece no, Nuccio Siano qui è il “Professore”, ed è lui, con il suo libro, la sua bacchetta, gli occhiali, la voce forte ma spesso accorata, segreti e disillusioni da nascondere, ad aprire la galleria di storie, comiche e tragiche, che ognuno dei 13 attori in scena comporrà a proprio modo, abitando e dando vita a un angolo di Roma che ormai da tempo ha perso il nome di borgata e di cui viene denunciato il mal di vivere e la crisi di identità dei giorni nostri. Sono luoghi, persone, avvenimenti di cui, di quando in quando si occupa la cronaca minore, quando ha bisogno di qualche colonna in più sul giornale, o al massimo qualche documentario sociale e urbano: il malavitoso, la donna di vita con un figlio allontanato, coppie coniugali e famigliari male assortite, chi entra ed esce dal carcere, chi entra ed esce dalla vita stessa. È un laboratorio teatrale che parte dalla lettura del libro di Walter Siti sul “contagio”, ovvero da una veglia funebre per il mondo perduto delle borgate pasoliniane, ormai sopraffatte da cellulari, miti e mode mediatiche che stravolgono riti, riunioni e credo familiari, che poco a poco ne hanno carpito l’anima e provocato un’insana unione con il mondo così distante eppure troppo vicino dei borghesi, dei nuovi ricchi dal soldo facile, che si appropriano di mentalità e parole non proprie e svuotano ogni cosa. Alla fine restano solo gusci e macerie, come un cantiere appunto. Nuccio Siano domina con mano precisa la sua orchestra di giovani e meno giovani attori, dando vita a una vera jam session dove i Radiohead lasciano il posto alle voci popolane e autentiche degli attori, che a loro volta accennano i testi delle canzoni di Pasolini. Ognuno di essi possiede una grande naturalezza, conoscenza e profondità del personaggio, formando un gruppo di lavoro solido e convincente, aiutato da una regia disincantata che strizza l’occhio alla dimensione live della musica con i suoi strumenti a vista, mentre a ogni scena, a ogni storia che tenta di completare un mosaico simile a rompicapo, gli attori ne scompongono e ricompongono i limiti, muovendo sedie, intrecciando i corpi e le intenzioni. Il teatro prorompe sanguigno e vissuto, ma la sua voce emerge attraverso una serie di istantanee da cinema realista, che danno profondità e umanità allo spazio stesso del palcoscenico, dove il “Professò” da narratore quasi estraneo scivola sullo sfondo a parlare teneramente con un ragazzo mezzo assopito, o il palazzinaro arricchito tenta un’impossibile relazione con la professoressa ‘bene’ a una festa dove tutti li guardano mimando una danza astratta da cubisti consumati, in una delle migliori intuizioni di tutto lo spettacolo. Si esce canticchiando la canzone finale e pensando a “Marcello” o a “Righetto”, ragazzi come tanti, spariti chissà dove, ombre terribilmente consistenti di un disagio e al contempo di un’autenticità che non esiste più. Il teatro fa anche di questi (piccoli) miracoli. Roma, 17 ottobre 2008 Teatro Nuovo Colosseo
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