Da subito, sin dal suo primo apparire alla metà degli anni ‘80, il teatro di “narrazione” si è posto come principale obiettivo teorico e poetico quello di ritardare il più possibile il processo entropico della memoria: quel meccanismo inevitabile e implacabile che prevede una progressiva consunzione delle energie mnemoniche della collettività. Il teatro di narrazione, in ragione di questo suo statuto conservativo, oltre che fenomeno teatrale di grande interesse, è, di fatto, forma d’espressione artistica di grande valore antropologico e civile. Tutto ruota intorno al potere ideopoietico della voce dell’attore, alla capacità di quest’ultimo di creare visioni, mondi possibili attraverso l’orchestrazione tonale e il ricorso, nella gran parte dei casi, all’espressionismo dialettale. Il dialetto difatti, in performance di questo genere, anche se non teatralizzato nella sua interezza, traspare spesso in qualità di più o meno marcata inflessione regionale dell’eloquio.
Il Fulmine nella terra di Mirko de Martino, già presente tra gli spettacoli dell’edizione 2014 del Fringe Festival, è una pregevole e dolorosa testimonianza poetica dell’odissea umana e morale dell’Irpinia colpita dal terremoto del 1980. La scena è spoglia e l’attore, Orazio Cerino, è solo, istanza fatica assoluta che riempie il vuoto teatrale che lo circonda con l’archeologia di un passato recente: i disiecta membra non tanto di un singolo tragico evento storico, bensì di un’epoca intera dominata da una rutilante patina di benessere che galleggia, con una certa ironia, sulla monocorde superficie delle sonorità disco e pop. Il contrasto tra il chiassoso disimpegno mediatico e la disperazione di un territorio abbandonato a sé stesso - fagocitato da un statuto di arretratezza e isolamento socio-economici che ne decreta l’inevitabile sconfitta nella corsa agli aiuti statali - è ben sottolineato dalle digressioni “dance” di Cerino. La ricostruzione storica è accurata e oggettiva e, soprattutto, quasi per nulla adulterata dal ricorso al patetico che pur in lavori del genere si cela minacciosamente dietro l’angolo di un sobrio empatico cordoglio.
Il ricorso massiccio, nella trama linguistica del lavoro, al “che” polivalente (del tipo: “apri l’ombrello che ti bagni”), impronta di quell’italiano medio, diastratico che è tanto comune nel teatro di narrazione (riscontrabile soprattutto in Celestini), può essere letto sia in chiave positiva, come stilema linguistico strettamente funzionale alla resa espressiva d’una umanità varia e forzatamente picaresca, ma anche sotto un profilo, diremmo, negativo come cliché o marca di un modello nel quale si rischia di rimanere invischiati minando così l’autonomia e l’originalità di un’opera incontestabilmente interessante.