Cechov e il silenzio dell'Oriente

Cechov e il silenzio dell'Oriente

Un’antica  storia narra che la pianta del ciliegio Sakura avesse i fiori bianchi. Un imperatore fece seppellire sotto i ciliegi i samurai caduti in battaglia. Da quel giorno i petali dei fiori divennero rosa per il sangue di questi eroi”.
Nelle sue note di regia per questa versione de Il giardino dei ciliegi la regista Viviana Di Bert racconta una leggenda popolare legata al fiore del ciliegio, simbolo nazionale del Giappone. La bellezza e la caducità della vita sono racchiuse in questo piccolo germoglio, destinato a fiorire e a morire in pochi giorni. Speranza, vita ed effimero non a caso sono anche alcuni dei motivi dominanti dell’opera di Anton Cechov, legato da un affetto profondo per gli alberi di ciliegio, simbolo della sua stessa giovinezza e della sua breve vita.
È nell’occasione fortuita di uno spettacolo per beneficenza, a favore delle popolazioni giapponesi colpite dal devastante terremoto dell’11 marzo scorso, che la cultura russa e quella giapponese si ritrovano sorelle. La regista dà vita al suo "Giardino dei ciliegi" come  rappresentazione del confronto tra una famiglia aristocratica e i rappresentanti della nascente mentalità borghese, entrambe in gravi difficoltà in un mondo in evoluzione, coniugando i silenzi dal respiro orientale con le sottili sfumature psicologiche della drammaturgia di Cechov, creatore di un palcoscenico dove i personaggi vibrano di corde e di dialoghi inespressi e mai conclusivi.
Va a merito di Viviana Di Bert di aver rispettato queste diverse sensibilità in una regia forse non troppo psicologica, ma attenta alla preziosità dei singoli momenti e della gestualità. La regista ha lavorato con un organico composto in maggioranza da donne, per cui è stato necessaro mutare al femminile alcuni personaggi, tra cui quello del vecchio servitore Firs, (la ieratica e convincente Gloria Annovazzi); l’estrema attenzione posta allo spazio vuoto, in cui campeggiano solo le icone dei ciliegi in fiore, ai costumi di chiara influenza nipponica dei servi sottolinea la differenza di rango e di mentalità con gli abiti sfarzosamente occidentali dei padroni di casa, mentre su tutto aleggia un’atmosfera rarefatta, in cui non tanto le parole quanto i gesti e gli sguardi danno significato alla storia.
Tuttavia una discrepanza abbastanza rilevante nella distribuzione dei ruoli e nella resa delle interpretazioni rende un po’ erratica e non precisa la scorrevolezza della messa in scena. Così, se convince il ruolo della proprietaria Ljuba (Irene Romalli), sia pure proposto con una declamazione alquanto strehleriana, risultano quasi intercambiabili e dunque non troppo espressivi i ruoli dello studente Trofimov (Gianluca Esposito) e del giovane servo Iascia (Graziano Sonnino). Appare fresca e graziosa ma non del tutto matura la figura della giovane Anja interpretata da Paola Delfino, mentre Giovanna Rumma porta un po’ sopra le righe il personaggio della saggia e infelice Varja. Se si rivela tecnicamente corretto e interessante il Lopachin di Andrea Bellocchio, una menzione onorevole meritano i ruoli del venale possidente Piscik (una matura Valeria De Matteis), e della serva Duniascia (la simpatica Marzia Masiello). Claudio Meloni lavora in maniera abbastanza indefinita e irreale il ruolo peraltro intrigante del fratello della protagonista, Gaiev.
C’è voluta sicuramente una grande volontà e generosità da parte della regista e di tutta la compagnia per penetrare con sensibilità e attenzione l’universo cecoviano, di assai complessa fisionomia, ma si è rivelato un compito rischioso che ha spesso rasentato il naufragio, come ad esempio  nel quarto atto, dove la concitazione dell’imminente partenza viene risolta con una scelta registica interessante legata a un’immagine di un orologio perennemente in movimento, tuttavia tutti i personaggi sono in scena, solcando freneticamente il palcoscenico…. per tutto l’atto, di fatto smarrendo l’effetto voluto e cosa più grave perdendo i momenti preziosi delle confidenze finali, momenti elusivi e caratteristici delle opere cecoviane. Non viene concessa la solitudine neanche alla morte di Firs, cui si accostano tutti gli altri, là dove il buio avrebbe meglio sottolineato l’effetto di quel “niente” finale.