"Il ritorno a casa" è una pièce teatrale scritta da Harold Pinter nel 1964. Da allora è stato messa in scena numerosissime volte dopo il debutto Londinese nel 1965 con la regia di Peter Hall.
Ora, a cinquant'anni di distanza, dopo vari riconoscimenti tra cui un Tony Award (arrivato nel 1967), quest'opera continua a rivelarsi densa e a svelare una stratificazione di significati degna di un Nobel per la Letteratura.
Ed è Peter Stein a portarla in scena al Piccolo Teatro fino al 1° dicembre.
L'"homecoming" è letteralmente quello di uno dei protagonisti, Teddy (Andrea Nicolini), che rientra a Londra dopo sei anni di lontananza da casa: si è costruito una vita in America come professore di filosofia, unico in famiglia ad essersi distaccato dalle oppressive e basse logiche che governano la casa in cui ancora vivono il padre Max (Paolo Graziosi), lo zio Sam (Elia Schilton) e i due fratelli Lenny (Alessandro Averone) e Joey (Rosario Lisma). Teddy torna a Londra insieme alla moglie Ruth (Arianna Scommegna) per rivedere la sua famiglia e per presentarla a lei. L'arrivo in casa di una donna - unica donna ("puttana") ad aver messo piede in casa dopo la morte della moglie di Max - porta grande scompiglio negli equilibri tra i cinque maschi della casa.
In una famiglia costruita già alla base sulla violenza verbale, sul disprezzo, sulla derisione, sulla rivalsa, Ruth scatena una rabbia latente che in qualche modo cementifica la relazione tra gli abitanti della casa, lasciando escluso Teddy, estraneo - o complice indiretto - alle logiche malate che dominano gli istinti e i rapporti.
Ruth è insieme vittima - della violenza verbale e fisica - e carnefice - nella lenta vendetta che tesse ai danni di tutti gli uomini che la circondano. Ruth finisce infatti per rimandare a casa Teddy da solo e resta con il padre, lo zio e i fratelli alle sue condizioni, ma esattamente come era stata definita all'inizio: da "puttana".
Peter Stein guida gli attori in una lenta ascesa verso il dirupo che alla fine lascia sospesi senza portarci ad una soluzione. Le relazioni tra i personaggi sono immobili, sempre al limite della rottura ma mai abbastanza tesi da sfociare nello scontro aperto. I personaggi dimenticano (o non considerano) il passato - e le bestialità che si dicono a vicenda - ad una velocità sconvolgente: sono in grado di dirsi le cose peggiori da sentire per poi ricominciare come se nulla fosse successo, in un eterno ciclo di cattiveria e gratuità.
Non c'è accumulo, ma una ripetizione continua. Non c'è evoluzione, ma eterno ritorno. E così la sensazione che resta è quella di una irritazione irrisolta verso qualcosa che non si è pienamente compreso. Restano purtroppo particolarmente indefiniti proprio i personaggi di Teddy e Ruth: Nicolini e Scommegna lasciano aperta una voragine di senso che non viene colmata né dal testo né dal sottotesto. Le parole, le dinamiche e la fisicità non arrivano a far mettere a fuoco le loro intenzioni o i loro sentimenti; l'effetto di indefinitezza che ne deriva non permette di godere a pieno le i salti e gli scarti presenti nel testo e nella trama. E quindi il ciclo continuo creato dalla regia e l'assenza di evoluzione finiscono a volte per rovinare se stessi e il significato intrinseco dell'operazione proprio perché non si comprendono i due protagonisti "esterni alla famiglia".
Se si accetta però l'indeterminazione come una scelta e come una componente interna della pièce si viene trascinati nel circuito e quasi si smette di interrogarsi sul significato di ciò che si vede, arrivando addirittura a ridere (almeno questa è stata la reazione del pubblico) di fronte alla cattiveria gratuita e volgare portata avanti da tutti come una bandiera. E forse è esattamente questo il senso che Stein voleva dare al testo: l'assenza di senso. La violenza che non viene da niente e non porta a niente. Un cambio di equilibri e posizioni che non ha reali motivazioni se non l'assenza di motivazioni. E, chiaramente, non è qualcosa che si accetta con facilità. Nè tantomeno volentieri.