Basandosi sugli scritti lasciati da pensatori e storici dell’epoca quali Socrate Scolastico e Damascio, e sui Decreti teodosiani del 391/392 d.C., l’autore Massimo Vincenzi ricostruisce la vita di Ipazia, filosofa e matematica di Alessandria, simbolo forte e coraggioso di un’epoca tormentata di odio e di persecuzioni. Messa in scena da Carlo Emilio Lerici e interpretata da Francesca Bianco, la pièce, già presentata durante la IV edizione dell’Opere Festival a Bracciano, racconta l’ultimo giorno di vita della donna, uccisa brutalmente da un manipolo di monaci esaltati.
Al centro della scena dunque lei, non solo nella persona, ma nei segni che la circondano e ne marcano il cammino: diversi leggii posizionati a formare un cerchio di sicurezza dal mondo esterno, su ogni leggio un libro, altri volumi intorno a lei quasi a proteggerla; dietro di lei un enorme schermo su cui passano le costellazioni, la luna, il sole, ma anche nubi, ombre minacciose e bagliori rosso sangue.
Lerici costruisce una regia rigorosa, circolare, il cui punto di forza è costituito dalla sola attrice presente; il tempo drammaturgico si spacca in due, diviso tra i pensieri, i ricordi, le speranze e le paure della pensatrice, e la voce martellante, stridente dei suoi nemici, i cristiani Teodosio e Cirillo, che pronunciano le formule perentorie degli Editti e delle accuse contro il paganesimo. È una messa nello spazio semplice, ma significativa, quella che impegna Francesca Bianco, cui vengono chiesti pochi ma precisi gesti – il rito quasi sacro della spoliazione dei leggii dai loro libri - via via che il tempo passa e la catastrofe si approssima. Altrettanto mirata è la scelta del commento sonoro pressoché continuo, e quando non sono le voci minacciose dei due cristiani a richiamare la protagonista dal suo mondo puro di pensiero e di nostalgia, sono le musiche di Francesco Verdinelli a ritmare di speranza o di terrore la luce chiara e le ombre cupe di un passato felice e di un destino ormai segnato.
Niente da dire dunque sul rigore e sull’intensità tanto della regia quanto dell’interpretazione, anche se Francesca Bianco, generosa e attenta al suo personaggio, forse condizionata dall’uso del microfono, tende peraltro a privilegiare un registro alto e stridente, perdendo un poco in convinzione, senza cogliere forse tutte le sfaccettature possibili di un universo così affascinante e vero come fu quello di Ipazia.
La linea drammaturgica, coadiuvata dalla ricerca di documenti e di fonti, appare interessante nel rovesciamento del ruolo storico del Cristianesimo, che passa da vittima a carnefice anche bestiale, ma proprio per l’attualità dell’argomento proposto, e per la sua complessità, pecca di eccessiva linearità nel proporre due semplici facce della medaglia – la ferocia e l’accanimento delle autorità cristiane nella persecuzione dei pagani, di contro alla ragione, alla mansuetudine e all’atteggiamento inerme di questi ultimi.
Difficilmente la storia si fa leggere e comprendere così bene, soprattutto quando risale a decine di secoli addietro: Ipazia rimane sicuramente il simbolo di una cultura e di uno spirito liberi e positivi, ma anche per questo non è bene confonderla con i rancori e le lotte teologiche, per cui quello che fu e resta un episodio gravissimo di intolleranza religiosa delle prime comunità cristiane potrebbe diventare un semplice spunto per diatribe e critiche poco utili e poco pertinenti a un contesto artistico.
Visto il
16-04-2010
al
Belli
di Roma
(RM)