Un re seduto su un gabinetto, illuminato solo da una lampadina, fa di un bicchiere la sua corona. È il “King Richard II” di Roberto Trifirò, che ha costruito una drammaturgia di solitudine e schizofrenia a partire dal Riccardo II shakespeariano.
Un re colto nel suo momento di riflessione, chiuso nel suo castello, a combattere su un ring immaginario le sue immaginarie guerre. Un re infelice e combattuto, incerto e insicuro, per quanto forte del suo dolore. “Fossi grande quanto il mio dolore, o più piccolo del mio nome”, dice. Rinchiuso nel suo castello-prigione, Richard II è assediato dai pensieri, dai ricordi, dalle memorie che affiorano sconnesse e singhiozzanti.
Lo spettacolo è difficile da seguire per quanto Trifirò si confermi, ad ogni suo spettacolo, un attore grande e versatile, oltre che un interessante drammaturgo. La narrazione, spezzata e continuamente ribaltata, non si presenta al pubblico come un flusso ma piuttosto come qualcosa da rincorrere in continuazione, con la sensazione che si arriverà mai ad afferrare qualcosa a pieno. E così il dolore e la solitudine di questo re, che si muove nervosamente all’interno di una scena cupa e scura, saltellando tra i personaggi evocati e i suoi se stessi mutati, non arrivano realmente a colpire chi lo osserva. King Richard resta separato, non crea empatia. Trifirò descrive così il personaggio: “una delle facoltà predominanti di Riccardo è l’immaginazione; una forte vita immaginativa gli prefigura, gli fa considerare scontati in anticipo gli esiti più funesti o gli propone soluzioni impossibile, prodigiose, e gli toglie la capacità di misurarsi con presente, quantunque non glielo celi. Da qui le oscillazioni, i salti d’umore, quelle estrose impennate che lo portano fino a vedere nella sua disavventura una grande metafora del male del mondo e a considerarsi, non senza qualcosa compiacimento, una vittima offerta alla perfidia degli uomini”.
Tuttavia questa dimensione non affiora chiaramente e non resta come impressione forte. Mentre nel suo “Parole che cadono dalla bocca”, rivisitazione del Molloy di Beckett, Trifirò aveva dato una chiara interpretazione del testo che gli permetteva un’autonomia interessante e proficua dalla fonte originaria, il Riccardo II che vediamo è intrinsecamente legato alla sua origine, anche semplicemente letteraria, e non riesce a staccarsene per andare ad assumere la dimensione più universale che forse lo avrebbe reso più epico.
Visto il
09-03-2010
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Out Off
di Milano
(MI)