L'origine del mondo di Lucia Calamaro spettacolo in quattro episodi potrebbe sembrare a prima vista un progetto un po' presuntuoso, o, comunque, un lusso in tempi di crisi variamente declinata: quattro testi, quattro spettacoli proposti di seguito, a serate alterne, o insieme, in una unica lunga maratona, eppure pensati anche per essere visti individualmente.
Invece mai testi ci sono parsi più necessari, mai spettacoli sono più vivi e al centro di una ricerca drammaturgica che non parte ma torna al teatro di parola. Degli spettacoli la cui visione induce a un irrefrenabile voglia di averne di più, di vederne di più, di saperne ancora. Forse sarà anche per questo che dopo quasi sei ore (con brevi pause tra l'uno e l'altro) il pubblico entusiasta fino all'urlo non smette di applaudire richiamando in scena le tre interpreti più e più volte.
Ogni testo è incentrato intorno la stessa protagonista, Daria, che non a caso mantiene il nome dell'interprete Daria Deflorian senza la quale questo spettacolo non sarebbe stato lo stesso (non lo diciamo noi, lo dice l'autrice, regista e attrice Lucia Calamaro).
Una donna, una madre, una moglie che ha fatto della propria casa tutto il mondo che vuole conoscere. Le uniche uscite che si concede da tempo sono infatti quelle per l'approvvigionamento di cibo (in orari serali se non notturni) e per le visite dalla psicologa.
Una solitudine precaria e casalinga interrotta dalla presenza concreta della figlia, che vive ancora con lei, ma che nel quarto spettacolo andrà a vivere altrove, dalla madre di Daria (Lucia Calamaro) che ogni tanto la va a trovare, e di un marito, per lo più assente, e che quando compare in scena parla con voce di donna (Indovinate un po'? La madre di Daria!) mentre le presenze ectoplasmatiche della cameriera e della psicologa si materializzano in casa incarnandosi nella stessa attrice che interpreta anche la figlia (Federica Santoro).
La casa mostrata in scena è un concetto astratto, una sorta di loft vuoto (ma dove sono finiti tutti i mobili? chiede la madre di Daria) che occupa per intero il profondissimo palco dell'India, sul quale campeggiano alcuni elettrodomestici, uno per ognuna delle quattro piéce: un frigorifero, una lavatrice, una macchina del gas e un lavello. Tutti perfettamente funzionanti.
Degli artefatti umani unica interfaccia con la quale Daria sembra fare ormai esperienza del mondo: dal frigorifero dal quale emerge l'unica luce di scena, che mostra una Daria china a cercare qualcosa da mangiare, alla lavatrice che prima viene fatta funzionare senza panni sporchi (è nuova, va rodata, spiega Daria rispondendo ai rimbrotti di sua madre) e poi aperta senza che i panni siano stati centrifugati, dalla macchina del gas che scalda il latte per Daria e la figlia (e la fiamma è di nuovo l'unica fonte di luce) al lavello nel quale Daria lava i piatti della cena fatta la sera prima da sola col marito, dopo che la figlia è andata via.
Oggetti casalinghi, per qualcuno squisitamente femminili, che costituiscono uno degli ancoraggi drammaturgici che le regista impiega per ribadire la concretezza di un discorso che si fa altro-da-sè non per vocazione metafisica, o metaforica, o perchè impiega, come tanta ricerca contemporanea, la quotidianità come pretesto per una urgenza affabulatoria scollegata dalla realtà. Per quanto vuota e prospettica la scena non ha nulla di astratto ma un che di universale all'interno della quale tutti i dettagli (le omelette preparate davvero da Daria Deflorian, con tanto di rigiramento nella padella con un gesto del polso; l'armadio nel quale ogni tanto Daria si rifugia e ne possiamo vedere solo le gambe) richiamano nella loro concretezza l'incombenza della realtà che è sempre fuori dal teatro, quella dalla quale il pubblico proviene e alla quale il
pubblico ritornerà.
L'origine del mondo appronta un discorso che Lucia Calamaro declina in tutte e tre le coordinate teatrali, la scrittura, la drammaturgia e la recitazione muovendosi con la stessa competenza e disinvoltura in ognuna delle tre.
I quattro testi si impongono per una lingua dove il quotidiano si contamina di allusioni a discorsi altri (da Wittgenstein a Simmel) e che restituisce dinamiche familiari comuni senza l'ausilio dei soliti cliché, sostenuta da una ironia anodina che sa infondere nei testi una leggerezza dell'intento e del significato che non ha uguali.
Il pubblico non si immedesima ma (si) riconosce percorsi omologhi, equivalenti e sorride (quando non ride liberatoriamente a bocca spalancata). Un testo dove dramma, dolore e aspetto ironico, comico, buffo , sono sempre accostati. Così se Daria nella prima pièce cerca nel frigorifero qualcosa da mangiare, e in questa ricerca appare tremendamente fragile e poco presnete, anche a se stessa, ecco emergere subito delle notazioni a lato serie eppure dannatamente ironiche (quei piccoli e costosissimi barattoli comprati alle fiere gastronomiche commenta Daria alla ricerca mai soddisfatta di un cibo adatto) che restituiscono il senso profondo di questo disancoraggio esistenziale di Daria che viene presentata sì come una depressa ma la cui depressione, a ben vedere, sembra l'effetto collaterale di un'irriducibile ostinata volontà a non adeguarsi, a non voler rinunciare a chiedersi i perchè, mostrando insofferenza verso quel principio di realtà che, almeno in casa, Daria vorrebbe poter sostituire con qualcosa di più vicino a una dimensione solamente sua (ah mai rimanere in casa coi vestiti di fuori racconta alla psicologa).
La reazione dei personaggi che la circondano, dalla figlia con la quale intesse una frequentazione più continua (che all'inizio sembra quasi farle da madre), al marito, che nell'esortarla ad affrontare il mondo di fuori non sa che ricordarle doveri e responsabilità (e infatti parla con la voce materna) alla madre stessa di Daria, che la schiaffeggia sonoramente in apertura di pièce, è sempre una reazione di insofferenza (mista a preoccupazione e incomprensione) perchè Daria non riesce a uniformarsi e, quindi, destabilizza.
Così i rimproveri che Daria riceve dalla famiglia (figlia-madre-marito), che non sembrano davvero colpirla o metterla in crisi, sono piuttosto la reazione degli altri al confronto con le sue idiosincrasie, sempre più solide di quanto non sembri a prima vista (dove solide vuol dire ben costruite, con argomentazioni meditate e mai banali), un confronto dal quale gli altri personaggi risultano più in trappola di Daria stessa che, almeno, esercita l'arte rara e incosciente del dubbio, contro il quale le certezze, sostenute più che davvero provate, degli altri personaggi si infrangono, spezzandosi appunto in un rimprovero vano e limitante.
Insomma ci sembra di capire che il dolore e la sofferenza di Daria non siano mai malattia, ma una sana reazione a un mondo ostile.
A una scrittura così misurata ma mai calcolata, dove nulla è lasciato al caso ma dove l'effetto non è mai ricercato ma genuinamente ottenuto, corrisponde una drammaturgia in grado di restituire al teatro di parola una occasione che non autoindulga nella performance fine a se stessa ma che rimanga a disposizione del testo.
Anche la recitazione è fondamentale per abitare uno spazio drammaturgico che non prescinde mai dalla realtà senza attestarsi a pervicaci esigenze di naturalismo dove il dettaglio concreto (gli elettrodomestici funzionanti) è sempre anche il simbolo di qualcosa d'altro che precede o segue la scena e che accompagna gli spettatori prima e dopo la visione delle pièce.
Se Daria Deflorian dà a queste pièce un contributo insostituibile grazie alla sua innata e sempre sorprendente capacità di restituire con leggerezza anche un testo gravido di implicazioni, Lucia Calamaro padroneggia l'interpretazione con la stessa necessità con cui dirige e scrive, in un connubio indissolubile dal quale emerge con la cifra stilista di Artista totale.
Più strutturata e appena meno immediata Federica Santoro ma è solo un ...effetto ottico derivante dal confronto con Deflorian e Calamaro, un po' come le macchie solari appaiono scure alla nostra vista come risultato di mera giustapposizione tra superfici incandescenti di diversa temperatura. La sua interpretazione doppia della psicologa, nella prima e nella quarta pièce, sono un monumento alla sagacia di Lucia Calamaro: nella prima alla cadenza didascalico-interpretante della donna corrisponde una espressione del viso occhi chiusi e occhi interiori disegnati sulle palpebre, che sono la più intelligente e profonda presa in giro del precorso psicoterapeutico mai visto a teatro. Nella seconda pièce, ai monologhi interiori delle due donne si sovrappongono i silenzi di Daria (che non sa come dire alla terapeuta che vuole interrompere le sedute) alla condiscendenza irritante e comicissima della psicologa che si fa le domande e si dà già le risposte.
Una quadrilogia che esplora l'interiorità dell'esistenza con una profondità, una comprensione e un'(auto)ironia che a noi uomini è preclusa perchè a noi uomini manca quella leggerezza che fa volare Lucia Calamaro e i suoi personaggi alto, altissimo e, nonostante il dolore e la crisi, ci mostra come è possibile vivere, anche quando molti si accontentano di sopravvivere.