Come una cerimonia la scena è rigorosamente apparecchiata: alti tendaggi rossi e neri come gli abiti dei due protagonisti; un lungo nastro rosso fra i capelli per lei, un fazzoletto color fiamma che spunta dal taschino dell’abito di lui. Entrambi attendono con trepidazione mista a timore un incontro che si è annunciato da tempo, ma che fin dalle prime battute appare siglato da strani e curiosi riti: una coreografia dal tocco mistico con cui la donna, giunta per prima, dà gli ultimi tocchi al proprio abito e dispone con cura le proprie scarpette rosse sotto un piccolo tavolo che le farà da sedile. Quando appare anche lui, il suo ingresso non è più convenzionale: una buffa danza che accompagna il suo gioco divertito di nascondersi e svelarsi a lei che lo attende.
Come un “a porte chiuse” sartriano il testo di Giuseppe Manfridi evoca un non-incontro dove i due protagonisti emergono da una nebbia; la scena vuota, in nulla può aiutare a identificare un luogo, un vissuto, un’identità che appartenga ai due personaggi. Le parole, i silenzi, saranno tutto quello che gli spettatori avranno come punto di riferimento, ma è soprattutto il non detto, una composizione di silenzi e piccole note isolate, il sottotesto che accompagna la loro schermaglia, svela il rapporto potente fra i due, una storia che presto si vela di particolari minuti ma essenziali. Il dipanarsi della ragnatela amorosa conduce al suo doppio negativo, dove poco a poco emergono dettagli di una relazione consumata nella possessione, nell’assoluta appartenenza l’uno all’altra anche quando il velo della quotidianità, della gelosia e dell’incomprensione inizia a tingere di grigio ogni loro avere, ogni effetto personale fino a racchiudere tutta la loro casa in una prigione, da loro volontariamente scelta, fino a un mutuale gesto finale che per la prima compiranno “non insieme”. La donna rimprovererà per sempre all’uomo quell’ora in più che ha avuto lui prima di rincontrarla là dove si trovano adesso.
Sono straordinari nella loro elusività i personaggi di Manfridi, inafferrabili ma universali: in essi stanno ogni donna e ogni uomo che nell’una vedono lo specchio dell’altro, dando un significato definitivo e spietato alla parola “incontro”, fino alle ultime conseguenze. Diverse le modalità di interpretazione da parte di Annalisa Rossi (che ne cura anche la regia), che ammicca al proprio alter ego femminile mantenendo tuttavia un distacco evidente, anche nei momenti di maggiore intensità, mentre Stefano Persiani, visibilmente emozionato, riveste con fragile cura il proprio ‘lui’ di una sensibilità nervosa e sofferente, che difficilmente accetta il suo nuovo luogo di appartenenza e tenta più volte la fuga nel corso del confronto. Come è quasi obbligato, nel caso di ogni regista che prenda per sé un ruolo, la Rossi si dimostra molto più efficace nelle scelte registiche, che regalano momenti lirici, di grande suggestione, nel delimitare il luogo e il tempo particolari cui è dato di incontrarsi ai due protagonisti, sottolineando la loro umanità e la differente accettazione dei due della situazione, della propria vita, della loro comune storia, e soprattutto dell’improvvisa conclusione.
Sembra quasi di udire quel “né con te né senza di te” di truffautiana memoria, mentre un’ultima volta le luci si abbassano sui due, ora di nuovo uniti, per sempre divisi.
Prosa
LA CERIMONIA
Lui e Lei: il rito dell'eternità
Visto il
24-11-2010
al
Agorà 80 Sala A
di Roma
(RM)