Torna in scena in questi giorni alla Sala Assoli di Napoli “La Madre” di Bertolt Brecht per la regia di Carlo Cerciello. Tratto dal romanzo di Maxim Gorkij, quest’opera fa parte dei testi afferenti al teatro didattico che raramente sono stati rappresentati in Italia. La storia è incentrata sul percorso di crescita e consapevolezza politica che porta la protagonista femminile, Pelagia Vlassova, ad essere a capo del corteo nella Rivoluzione d’Ottobre del 1918. Proprio lei che, all’inizio della pièce, aveva accettato di essere coinvolta nelle attività degli operai in sciopero solo per tutelare il figlio, diviene, quando il figlio stesso coinvolto negli eventi rivoluzionari della Russia zarista del 1905 è imprigionato e poi fucilato, “la madre” di tutti i proletari in lotta impegnandosi in prima fila nella propaganda rivoluzionaria.
L’opera, scritta nel primo biennio degli anni ’30, nasce dalla volontà di Brecht di determinare una svolta definitiva alla condizione del proletariato ed a quella dei quasi 5 milioni di disoccupati tedeschi, che in quell’epoca vagano senza la guida certa di alcuna forza politica. Il teatro diviene mezzo per la trasmissione dei fondamenti ideologici del marxismo e capace di saper educare ogni individuo alla critica di sé e della società di cui fa parte. Sono questi alcuni dei più rilevanti aspetti che dettano le linee della poetica brechtiana che di poetico, ovvero di lirico, hanno ben poco poiché è l’oggettività del messaggio ad essere l’unico motore propulsivo dell’opera messa in scena. Sarà al servizio di quest’idea, ad esempio, la reintroduzione in scenica del coro, l’interlocuzione diretta col pubblico dei personaggi presenti in scena, i cartelli con la proiezione di alcune nozioni descrittive lo spazio/tempo dell’azione rappresentata. E’ evidente la finalità estremamente pragmatica dell’autore tedesco che avrebbe voluto fare dell’opera teatrale un mezzo concreto per tentare un cambiamento del reale.
Purtroppo, dopo più di ottant’anni, l’opera brechtiana è presa e riportata in scena senza un vero e proprio adattamento, stanca dei prolissi concetti di alfabetizzazione di cui è succube qualunque “intellettuale” di sinistra, spettatore tipo del teatro borghese in cui è rappresentata, non stupiscono le note di regia di Carlo Cerciello in cui si dichiara:“ il nostro vuole essere un solitario omaggio alla classe operaia, che in Paradiso, purtroppo, non è andata e non andrà mai”. Ed infatti la messa in scena in oggetto appare evidentemente un tributo funebre ad un’ idea ed ad un’identità di classe definitivamente defunta ma in buona sostanza anche alla stessa opera dell’autore tedesco che perde gran parte della sua forza comunicativa. Ne consegue che le scelte registiche sia aderenti al testo originale - i tanti cori inneggianti alla rivoluzione con cadenza più che elementare - che dettati dalla necessità di trovare nuove soluzioni registiche - il primo scioperante colpito a morte dalla polizia che narra la propria vita sulle note de “L’avvelenata” di Guccini, il forte trucco sui volti dei personaggi tale da disegnare delle angosciose maschere fortemente ispirate alla cinematografica russa del primo novecento - fanno comprendere quanto un lavoro così confezionato non può che rappresentare un memoriale di un’epoca antica, una specie di capsula del passato, che non costituisce in alcun modo uno sprone, un pungolo alla sensibilità, tanto meno all’intelletto, degli astanti. Detta la cifra di tale impressione, l’ultima scena, ove Pelagia Vlassova stringendo la bandiera rossa volta le spalle alla platea, restando chiusa nello spazio scenico da due catene che, legate a croce, portano al loro centro un cartello con la scritta “chiuso”.
Resta da precisare quanto l’opera di Cerciello carica, soprattutto dal punto di vista drammaturgico, di amarezza e nostalgia per un tempo passato e per un futuro mai compiuto, sappia utilizzare in modo più che pregevole l’ispirazione legata all’iconografia sovietica per stilizzare i movimenti di scena, grazie anche al sapiente utilizzo della scenografia di Roberto Crea, essenziale e duttile alla composizione scenica e di alcuni riusciti adattamenti musicali, ad opera di Paolo Coletta, quale la versione, dalle sonorità post-industriali, del brano di Ennio Morricone tratto dal film “La classe operai va in paradiso”. Infine, dona fierezza e profondità espressiva la prova attoriale dell’intera compagnia, dalle indubbie qualità canore, capace di essere sempre permeata del giusto pathos interpretativo, in primis di Imma Villa tenace ed ironica nel ruolo di protagonista.