La morte della bellezza è il terzo appuntamento di Storie naturali e strafottenti, il ciclo curato da Luca De Fusco con il quale il Teatro Mercadante rende omaggio a Giuseppe Patroni Griffi a dieci anni dalla morte. Lo spettacolo è basato sull’omonimo romanzo dello scrittore e regista partenopeo, pubblicato per la prima volta nel 1987. Ambientato a Napoli all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, il testo racconta l’itinerario sentimentale del giovane Lilandt e del giovanissimo Eugenio, destinati alle meraviglie e ai tormenti di un rapporto inquieto, tutto vissuto all’insegna della bellezza.
La trasposizione teatrale di un’opera letteraria è sempre una scommessa rischiosa. Non consiste soltanto in una selezione di materiali narrativi, non implica semplicemente un mutamento di strumenti comunicativi. È, piuttosto, un atto interpretativo forte, attraverso il quale l’indeterminazione della traccia scritta, passibile di molte e diverse letture, precipita e si cristallizza in una specifica declinazione, resa tanto più pervasiva - e persuasiva, nei casi meglio riusciti - dall’evidenza plastica del gioco scenico. Con un altro, geniale romanzo di Patroni Griffi, Scende giù per Toledo, si è cimentato l’anno scorso Arturo Cirillo in un coraggioso ‘monologo polifonico’ presentato per la prima volta al Napoli Teatro Festival Italia e poi applaudito in diverse piazze italiane. Per La morte della bellezza Benedetto Sicca, che firma la drammaturgia e la regia dello spettacolo in scena al ridotto del Mercadante, ha scelto invece il serrato dialogo dei due protagonisti del romanzo, interpretati dallo stesso Sicca e da Mauro Lamantia.
La scena ideata da Luigi Ferrigno è uno spazio cupo di estrema semplicità, che tuttavia conosce ingegnose ed eleganti riarticolazioni nel corso della performance: è la sala cinematografica minacciata dai bombardamenti nella quale avviene il primo fatale contatto tra Lilandt ed Eugenio; è la strada del successivo incontro, sperato e temuto, impossibile eppure inevitabile; è il letto di Lilandt, sconfinato e avvolgente come il mare di notte. Sul fondo, le proiezioni realizzate da Alessandro Papa ribadiscono il legame tra la rappresentazione e la sua fonte mediante l’immagine di una mano che traccia sul foglio il testo del romanzo, come contrappuntando silenziosamente le battute e i gesti. Un’immobile pioggia di rose, congelata per incantesimo, accompagna le fasi più intense della passione e del distacco.
Sicca e Lamantia puntano subito a stabilire un legame con il pubblico e, bucando in più occasioni la quarta parete, si rivolgono direttamente ad esso con domande e osservazioni, sfoghi e confessioni. L’alternanza tra dialogo e riflessione, tra azione e racconto, frutto di una meditata progettazione, scorre senza artificiosità e produce una moltiplicazione di piani e una differenziazione di ritmi che giovano alla tenuta complessiva della pièce. Non si resta indifferenti di fronte alle gioie e alle sofferenze di Lilandt ed Eugenio, che continuamente si cercano e si respingono, si desiderano e si temono. Autentico è il loro terrore di fronte allo scandalo di un amore assoluto e totalizzante che è insieme tenerezza e stupro, piacere e mistero, scoperta e sfida. Certo, può accadere che gli spettatori trovino i protagonisti diversi da come se li aspettavano, distanti dall’immagine che di essi avevano elaborato sulla base della lettura del romanzo. A chi scrive, ad esempio, il Lilandt di Sicca è parso un po’ troppo estroverso e scafato, mentre l’Eugenio di Lamantia è sembrato più candido e più spontaneo di quanto la pagina scritta suggerisca. Ma al di là delle predilezioni soggettive, resta la forza di uno spettacolo che costringe a riflettere sulla verità dei (propri) sentimenti e sulla possibilità di contenere l’energia del desiderio entro l’alveo dell’esistenza ordinaria. I due interpreti si mettono a nudo (non solo metaforicamente) e utilizzano il corpo ora come complemento e completamento della parola, ora come strumento espressivo autonomo, capace di assorbire e restituire vibrazioni profonde. Fino alla bellezza struggente dell’ultima scena, nella quale l’abbraccio a distanza degli amanti, uniti e separati dall’enormità della passione, si dissolve in un addio dolente, con Lilandt che scompare nel buio lasciando Eugenio a danzare da solo.