Ipazia, filosofa pagana vissuta ad Alessandria nel IV° secolo d.C., è stata l’anno scorso e quest’anno al centro di una riscoperta cinematografica e culturale per cui, in concomitanza con l’uscita del film dello spagnolo Amenàbar, si sono moltiplicati servizi televisivi, libri e discussioni. Fa scalpore, è chiaro, la sua tragica fine a opera di un manipolo di fanatici monaci cristiani, il suo ergersi a difesa della preservazione della cultura e della religione di Alessandria, contro il nascente culto cristiano e contro le rigide leggi restrittive promulgate dal vescovo cristiano Cirillo, che di fatto fomentarono movimenti di violenza e ribellione nella stessa capitale alessandrina.
Così, anche il piccolo spazio di Raabeteatro, una delle tante realtà culturali di Roma, promotore di eventi ed avvenimenti letterari ed artistici, si è mobilitato in questo senso mettendo in scena Le lettere di Ipazia, lettura-studio sulla figura di questa donna e studiosa, destinata a stuzzicare l’immaginario e probabilmente la coscienza di molti.
Protagonista e regista di questa operazione è Rosetta Pesce che, insieme a un gruppo di appassionati interpreti, ha collezionato notizie, opere e lettere (peraltro solo immaginarie, dal momento che non è rimasto pressoché nulla dell’opera della filosofa) e ha dato vita a un testo originale, che non punta alla discussione politica o sociale sulla vita e ovviamente sulla morte di Ipazia, ma si concentra sulla sua personale visione del mondo, sui suoi amici – tra cui fondamentali sono i passaggi dedicati all’allievo Sinesio di Cirene, in seguito diventato vescovo – l’amato padre Teone, il dolce e malinconico ricordo della madre prematuramente scomparsa. Ne emerge un quadro delicato e intimamente femminile, non privo di acume e fermezza, che si evidenzia nei passaggi dedicati alla vita culturale nella propria città, soprattutto ai pericoli crescenti che la filosofa quasi presagisce in diversi momenti della propria vita e del proprio pensiero
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Vi sono diversi aspetti lodevoli in questo lavoro che, pur costruito in chiave amatoriale, ha saputo distinguersi per una grande maturità drammaturgica: suggestivi e ben montati i passaggi letti ‘a canone’ delle quattro interpreti (la stessa Pesce, insieme a Celestina Fabio, Maria Grazia Moriani, e Marzia Spinelli) che si passano l’un l’altra la voce davanti alle pergamene, riproposte nell’aspetto originario dei rotoli, con piccoli, significativi movimenti sulla scena, drappeggiata da fogli vergati a mano con i passaggi in greco delle opere originarie. Ci interessa qui in effetti non tanto soffermarci su un possibile taglio teatrale che potrebbe soffrire di inevitabili passaggi critici dovuti a un’esperienza registica e attoriale ancora da consolidare e perfezionare, quanto sottolineare soprattutto l’efficacia della ricostruzione visiva, che ha saputo ben sfruttare lo spazio multifunzionale dell’associazione, le sue due sale bianche unite da un grande arco, che hanno permesso lo svolgersi della lettura nella prima sala (un ‘a parte’ in un tramezzo rialzato è stato montato per Claudio Linari, interprete del vescovo Cirillo), mentre ad altro è stata destinata la seconda sala. Per la tragica fine di Ipazia e di tutto il suo sapere infatti è stata approntata una soluzione semplice e di effetto: le quattro lettrici vengono avvolte da una penombra dove solo l’immagine proiettata del porto alessandrino fa da sfondo alla ‘distruzione’, operata sul momento con il rovesciamento dei pochi oggetti di scena previsti, mentre l’omicidio di Ipazia si svolge in un fuori campo denunciato dalle “Cronache” di Socrate Scolastico declamate dalle quattro voci invisibili, nel frattempo celatesi nell’altra sala.