C’è Antigone dietro Le sorelle di Tebe: l’eroina di Sofocle, Brecht e Anouilh conosce qui una nuova versione, che mira a una lettura umana e al contempo critica del personaggio.
La storia della coraggiosa fanciulla tebana decisa a dare sepoltura al fratello reietto Polinice, sfidando il divieto reale e mettendo in pericolo la propria vita, è stata spunto per una costante evoluzione del personaggio, visto alla luce di diverse ideologie e di diverse epoche. Così, se in Sofocle prevale l’intreccio classico, il conflitto senza tempo tra legge dello Stato e legge etica, in Brecht Antigone, nel suo pacifismo e Creonte, nella sua tirannia, sono già specchio di una condizione moderna dove l’orrore quotidiano (la pièce fu scritta nel 1948) si insinua nella vita e nelle intenzioni di un teatro ormai politico. Ma è soprattutto con Jean Anouilh che la protagonista assurge a una coscienza e a una fragilità tutte contemporanee, tessendo una fitta tela di rapporti, di rifiuti e di dialoghi con le persone che la circondano, con la sorella Ismene, e soprattutto con il suo antagonista Creonte, anch’egli non più solo tiranno, ma uomo condannato dalla propria solitudine.
Ripercorrere le tappe di quest’evoluzione e le coscienze degli autori che hanno preceduto questo adattamento serve a comprendere meglio quanto è stato messo in scena ieri dalla regista Mariagiovanna Rosati Hansen. Nella sua solitudine Antigone diventa in realtà specchio di altre due figure: sua sorella Ismene, il suo doppio (il titolo della pièce può già suggerirlo), che come lei deve percorrere un lungo cammino di comprensione e di coraggio; il fidanzato Emone, cui lei offre tutto di se stessa prima di lasciarlo, una lezione che il giovane farà propria continuando a lottare per lei, solo a solo, con il re.
Sono loro quindi, questi tre giovani, che vivono una dimensione di saggezza e di fermezza infinitamente superiori a quelle dei loro antagonisti, adulti capaci di prendere decisioni solo sbagliate: a iniziare dal re, Creonte, che si muove, pensa e parla compenetrato nel suo ruolo di tiranno, una sorta di gabbia per cui è incapace di un solo istante di riflessione, a metà tra la paranoia e l’isteria continue. Gli si oppone Giocasta (interpretata con la consueta disciplina dalla stessa Hansen), la moglie del suo predecessore Edipo, che scompare all’inizio della storia per ricomparire subito dopo, come madre, visione, oracolo chiamato a sorvegliare lo svolgimento degli eventi e a raccoglierne le conseguenze, con dialoghi dall’alto di una tribuna o dal fondo di una tomba.
Il personaggio di unione tra queste due fazioni che percorrono gli spazi siderali di una corte futuristica, lontana nel tempo e negli affetti, è costituito da un personaggio di rilevanza minore nelle versioni classiche della pièce, ma qui molto importante: è Gordias, la guardia, che qui appare all’inizio come un personaggio di poco conto, quasi una macchietta, preso solo dalla preoccupazione di fuggire i problemi e le responsabilità e che, in definitiva, sarà il portatore e il continuatore del messaggio ultimo di Antigone, della sua lotta all’ingiustizia, all’ipocrisia e all’indifferenza.
“Le sorelle di Tebe” è una metafora, lo specchio delle profonde incertezze e della precoce maturità dei giovani, che portano il carico di un futuro peggiore dei loro padri, dove le relazioni più vere, quelle tra sorelle, o tra amanti, devono consumarsi quasi di nascosto, incomplete e colpevoli, alla luce di un potere costituito guasto e malvagio, che può essere eluso e vinto solo dalla purezza di un gesto estremo. La Hansen ha costruito una regia estremamente simbolica in ogni dettaglio: dai colori bianchi e neri che colpiscono una scenografia composita dove i personaggi corrono da uno spazio all’altro di una pedana che attraversa tutto il teatro per andare a combattere le proprie guerre sugli spalti della corte, dietro cui si intravedono archi quasi mussoliniani, o davanti alla grande tela bianca che verrà sollevata solo verso la fine, per mostrare la tomba lunare di Antigone e dove è pronta ad attenderla la madre.
Scene (opera di Alessandro Calabrese) e costumi perfetti cui si contrappongono, come un’onda in piena, qua e là agitata da correnti di energia e di discontinuità, le interpretazioni degli attori: dal ruolo tormentato e non facile di Creonte (Marco Capodieci), chiamato a una parte molto gridata, con movenze e furori hitleriani (anche se spesso la coscienza dell’attore tende a ostacolarlo più che a favorirlo), al binomio Antigone/Ismene (Francescaelisa Molari e Blaženka Pane), sorelle in guerra, che costruiscono la loro fiducia e il loro affetto con il (poco) tempo a disposizione. Una parte più riservata e di composizione spetta a Franco Heera Carola, chiamato a rivestire il ruolo di Emone, in una curiosa interpretazione che, complice il costume quasi orientale, lo avvicina alla superiorità e alla distanza di un discepolo buddista, molto superiore alla sua giovane età e quasi in contrapposizione all’effettiva irruenza dei dialoghi e delle azioni finali. Ineccepibile nella tecnica e estremamente convincente nell’umanità è la prova di Andrea Cramarossa, che alimenta il suo Gordias di una coscienza ed intensità straordinari, tanto nel registro comico iniziale quanto nella successiva presa di posizione finale.